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Rodotà, il maestro del diritto che ci ha indicato la via.
di Gaetano Azzariti

Stefano Rodotà era un maestro del diritto ma soprattutto un maestro di vita, non solo un raffinato intellettuale anche il protagonista di trent’anni di battaglie civili.

Egli era convinto che la scienza giuridica non si potesse ridurre ad un puro specialismo. Il “diritto” era da lui considerato un mezzo per garantire i “diritti” concreti delle persone (il diritto di avere diritti, recita il titolo di uno dei suoi libri). Questo l’ha indotto a ingaggiare una battaglia contro il formalismo vuoto di molti giuristi di ieri e di oggi, ad impegnarsi per la realizzazione di una effettività dei diritti. È l’impegno civile che deve sorreggere la vocazione del giurista, che deve indirizzare le sue riflessioni. Tra i compiti dello studioso c’è quello di guardare oltre l’astrattezza delle norme per riconoscere la materialità degli interessi sottostanti, non ci si può trincerare solo dietro il “baluardo” della forma, bisogna considerare anzitutto la persona in carne ed ossa, i suoi bisogni. Oltre il diritto c’è la vita, ha scritto Stefano Rodotà.

Una buona dose di “moralismo” – di cui egli ha fatto l’elogio – ha contrassegnato il suo modo di operare e l’ha indotto a concepire il suo ruolo come protagonista attivo dell’eterna lotta del diritto per dare dignità alle persone concrete, per migliorare le istituzioni democratiche. Un giurista della società civile che ha promosso il cambiamento sempre nel senso dell’estensione dei diritti al fine di “assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (com’è scritto all’articolo 36 della nostra costituzione, una formulazione particolarmente amata da Rodotà).

Non era solo un rigoroso civilista, era anche un costituzionalista naturaliter. Nel suo impegno sociale, nell’affermazione della prevalenza dei diritti delle persone sulle logiche dei poteri, si radica la convinzione che non si può avere società senza costituzione, e – parallelamente – che non si può avere costituzione se la garanzia dei diritti non sia assicurata, né la divisione dei poteri fissata (per ripetere le parole scritte nel testo che si pone alla base del costituzionalismo moderno: la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789).

È questa forte sensibilità costituzionale che l’ha portato ad assumere un particolare ruolo nel suo specifico campo disciplinare, lo ha indotto a rompere gli angusti confini che dividevano i giuristi rinchiudendoli nei diversi specialismi. Rodotà ha fatto parte di una élite di giuristi e intellettuali – alla quale appartenevano figure del calibro di Massimo Severo Giannini o Riccardo Orestano – i quali teorizzavano e operavano in base ad una solida convinzione: quella secondo la quale la scienza giuridica non può essere spezzettata, non può ridursi – come ahimè oggi spesso avviene – ai mille specialismi che fanno perdere il senso stesso del proprio agire.

Ha iniziato ben presto a lavorare per l’innovazione. Lo ha fatto, anzitutto, da studioso, quando giovanissimo ha contribuito in modo decisivo a far cambiare passo alla scienza del diritto. Le sue due prime monografie – nel 1964 e nel 1969 – rappresentarono una rivoluzione per gli studi del tempo. Di fronte ad una cultura dei giuristi che ancora si attardava nel formalismo giuridico che poneva ai margini la costituzione repubblicana, ecco un giovane studioso che dimostrava la necessità del cambiamento. Oltre – e sopra – il diritto civile si staglia la costituzione, l’interpretazione giuridica non può che fondarsi su una legislazione per principi che pone al centro i diritti delle persone reali.

È l’attenzione per i diritti delle persone concrete la chiave che deve essere utilizzata per interpretare gli istituti del diritto civile. Persino il “terribile diritto” (la proprietà) deve piegarsi alle logiche solidali e al principio costituzionale della “funzione sociale”. Gli stessi beni possono porsi al servizio dei diritti fondamentali e costituire uno strumento per favorire il pieno sviluppo della persona: sono questi i “beni comuni” (secondo una formula di cui oggi si abusa, alla quale Rodotà è riuscito per la prima volta a dare valore scientifico). Tutti i temi trattati da Rodotà hanno mostrato la sua forte propensione al realismo e grande attenzione alla materialità della dimensione dei diritti. Nei tempi più recenti egli è giunto a prospettare un nuovo paradigma teorico generale, su cui a lungo dovremmo continuare a riflettere. Ci ha mostrato una rotta, che potrà essere seguita dagli studiosi di diritto che si riconoscono entro il progetto del costituzionalismo democratico e pluralista. Bisogna pensare – egli scrive – ad un nuovo “costituzionalismo dei bisogni”. A noi spetta la costruzione di un diritto costituzionale che ponga al centro i bisogni delle persone concrete.

È in questa prospettiva che Rodotà – intellettuale inquieto e di confine – ha svolto le sue analisi, occupandosi di temi ritenuti proibiti all’indagine dei giuristi. È da una linea di frontiera che Rodotà è riuscito ad esplorare il “diritto d’amore” (è il titolo di un volume del 2014). Credo che nessuno con altrettanta delicatezza abbia saputo affrontare un tema così scivoloso, ricordando a noi tutti che prima della legge, delle sentenze, della dottrina c’è qualcosa di ben più importante, un vero diritto inviolabile: quello ad amare.

La centralità della persona, il rispetto della sua dignità sono stati i fari con cui ha illuminato territori sino ad allora sconosciuti. Solo un’attenzione alle concrete modalità di svolgimento della vita poteva portare Rodotà a sostenere con radicalità e rigore le ragioni del biotestamento. Un testamento che riassegna all’umano la scelta sulla propria esistenza e non si limita a regolare i beni, la proprietà, la morte delle persone.

Occuparsi della vita delle persone vuol dire preoccuparsi del loro “pieno sviluppo”, come recita l’articolo 3 della nostra Costituzione. Così, in particolare dopo la sua esperienza di garante delle privacy, è entro questa prospettiva che Rodotà ha indagato i fenomeni della rete, straordinario strumento per poter conseguire l’obiettivo del pieno sviluppo. Qui la sua attenzione alla dimensione costituzionale dei diritti lo ha portato a proporre la soluzione più lineare e incisiva per un giurista. Introdurre in Costituzione il diritto di accesso ad Internet, tramite una modifica puntuale di un comma dell’articolo 21. Una revisione costituzionale nel segno dell’allargamento dei diritti e nel solco della democrazia costituzionale. Una lezione di stile e di equilibrio nel maneggiare il testo costituzionale, nel proporne la sua manutenzione, nell’assicurarne la sua evoluzione. Una lezione che in fondo spiega le ragioni che hanno portato Rodotà a contrapporsi con forza e rigore al revisionismo costituzionale che operava in un senso opposto a quello da lui indicato. Tra le ragioni che lo hanno portato a contrastare l’ultimo tentativo di cambiare la costituzione v’è sicuramente la percezione che esso non avesse nulla a che fare con i diritti dei cittadini, semmai ne aumentava la distanza, guardando solo alle ragioni del potere e non invece a quelle dei governati.

La lotta per i diritti intrapresa da Rodotà ha varcato i confini nazionali. Il suo impegno civile lo ha portato anche in Europa. Basta pensare alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, elaborata dalla Convenzione che lo ha visto protagonista. Essa rappresenta il più impegnato tentativo di far mutare rotta all’Europa.

Subito dopo la sua approvazione, a Nizza nel 2000, Rodotà ha ingaggiato una lunga lotta per far conquistare alla Carta un valore giuridico e non solo politico. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che ha conferito alla Carta dei diritti “lo stesso valore giuridico dei Trattati”, qualcuno ha potuto ritenere che la battaglia fosse stata vinta. Non Rodotà. Il quale, invece, scrive che l’Europa “ha voltato le spalle alla Carta”. Una lezione di realismo che ci invita a riflettere sui limiti della formalizzazione giuridica e sulla necessità di guardare sempre all’effettività dei diritti: non basta che siano proclamati, ma richiedono sempre che essi siano sostenuti dalla politica, che li ha invece abbandonati. Ed è proprio questa latitanza della politica che richiede un surplus di impegno diretto, che ci chiama all’impegno civile. “La salvezza dei diritti – ha di recente scritto – è nel suo farsi convintamente politica dei diritti, di tutti i diritti”. Un compito che non può essere delegato ad altri, ma che spetta a ciascuno di noi. Rodotà ci ha indicato una via, spetta a noi continuare a percorrerla.

16 maggio 2018