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Pericolo puritano (il #MeToo e le sue derive)
di Paolo Flores d’Arcais, da MicroMega 6/2018

Lo stupro è uno dei reati più gravi, più grave anche dei reati puniti con la stessa pena massima, perché straordinariamente odioso.

Mostruosa era l’«attenuante» della provocazione o addirittura della «vis grata puellae», fino a qualche decennio fa utilizzate dagli avvocati difensori, spesso con disgustoso successo. Mostruosi restano oggi i «se la sono cercata», per una minigonna o per approcci condivisi cui a un certo punto la donna dice no.

Per educazione fin dall’infanzia, e per clima sociale, alla donna resta difficile denunciare lo stupro (o la molestia), che spesso interiorizza come «sua colpa» e ancor più spesso paga con l’ostracismo sociale.

Devono essere promosse tutte le condizioni giuridiche e sociali perché la donna che denuncia stupro o molestia si senta protetta e incentivata a denunciare anziché tacere.

La distanza di tempo non può essere invocata per tacitare accuse di stupro o molestia.

La molestia non è uno stupro, e infatti viene punita con pene differenti (anche tra fattispecie diverse di molestia), e un corteggiamento volgare o insistente non sempre è giuridicamente (e neppure moralmente) molestia.

Ogni condanna penale esige che il reato sia provato «al di là di ogni ragionevole dubbio», garantismo e giustizialismo sono due facce dello stesso dovere giuridico e di civiltà: che il potente e l’«eccellenza», e l’ultimo dei diseredati, vengano trattati (ed eventualmente puniti) con lo stesso grado di tutela processuale e di severità.

Tutte le accuse «parola di A contro parola di B» sono particolarmente difficili da dimostrare, non solo in materia di reati sessuali (umiliazioni e ceffoni delle maestre a bambini piccoli, maltrattamenti negli ospizi eccetera), ma il dovere di provare le accuse non può venire meno. Devono però essere garantiti e agevolati tutti i mezzi di prova (intercettazioni, telecamere nascoste eccetera).

La condanna sociale, che oggi col web può diventare linciaggio, non è sottoposta alle stesse regole dell’accertamento giudiziario, ma non per questo può diventare l’aberrazione di «vox populi vox dei».

L’accusa di stupro è la più infamante, e la falsa accusa di stupro è prossima allo stupro perché può distruggere una vita come uno stupro. Anche una falsa accusa di molestie può rovinare l’esistenza di chi venga accusato ingiustamente.

Questi princìpi, che dovrebbero essere ovvi, funzionano sempre da stella polare quando qualche caso clamoroso riapre la discussione su questi delicatissimi e tragici temi?

Purtroppo non sempre.

Che a partire dal caso Weinstein tante donne che hanno subìto le sue prepotenze (dalle volgarità, alle molestie, allo stupro) abbiano trovato la forza di parlare, e che in generale un numero sempre maggiore di donne si senta incoraggiato a non tacere, va salutato e accompagnato con tutte le misure giuridiche, culturali e sociali possibili.

Che nel vivo del dibattito, che dilaga nei media e nelle conversazioni private, si affermino storture e pregiudizi talvolta gravi, culturali e perfino giuridici, va contrastato con altrettanta decisione.

In primo luogo il rispetto del significato delle parole. Una molestia non è uno stupro, e un corteggiamento volgare non sempre è molestia. Rubricarli tutti sotto la voce più grave ha l’effetto sociopsicologico boomerang di depotenziarli tutti al livello meno grave, non quello auspicato di sottolineare il carattere comunque insopportabile di tutti quei comportamenti.

I termini che si usano devono essere quanto più possibile chiari e definiti. La «condotta inappropriata» è dizione che per la sua genericità scolorisce ogni comportamento condannabile a livello eufemistico, mentre al contempo si presta a ogni abuso di accuse infondate.

Nell’accertamento del reato e nella condanna sociale devono valere i comportamenti effettivamente compiuti, non il «vissuto» di una delle due parti o di chi giudica. Torneremmo allo sciovinismo di «right or wrong, my country», dove country può diventare nazione, razza, religione, sesso, preferenze sessuali, partito politico, squadra…

Che il proprio «vissuto» diventi prova (anche solo per il «giudizio del web», forma postmoderna di «giudizio di Dio») significa cancellare la legge e ogni regola di convivenza, perché ogni vissuto può essere conflittuale con l’altro rispetto allo stesso fatto, e per il vissuto di qualche fedele di Allah una vignetta «inappropriata» su Maometto è il culmine dell’abominio, colpa espiabile solo con la morte.

Se il vissuto può diventare verità di fatto incontrovertibile, ciascuno può immedesimarsi nell’incubo dell’incrocio di falsità e ricatti cui potrebbe dare luogo.

Le accuse e i giudizi riguardano persone, non categorie. Non esistono bianchi e neri, immigrati e «noi», ebrei e cattolici e islamici, uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, calabresi e genovesi, esistono bianchi e bianchi, neri e neri, immigrati e immigrati, italiani e italiani eccetera. Criminali e benefattori, corrotti e onesti, maleducati e civilissimi, avidi e generosi, sinceri e bugiardi, si potranno trovare in ognuna di queste «identità».

Ci sono donne e donne, uomini e uomini. Vale anche per sincerità e menzogna. La Donna, non è per sua natura Angelo e l’Uomo per sua natura Bestia.

Sincerità e menzogna non sono sinonimi di buonafede e malafede. Esiste ormai una vasta letteratura neurobiologica che spiega come ciascuno di noi, in maniera variabile o variabilissima, dal quasi per nulla allo straordinariamente, rimodelli i propri ricordi, tanto più quando sono fonte di conflitto con un «sé» mutato nella percezione dei fatti o nei valori.

L’asimmetria di potere, ricchezza, status, è un fattore di peso che va tenuto sempre presente. Statisticamente è a sfavore delle donne in modo schiacciante. Ma la categoria di «asimmetria» nasconde asimmetrie reali di tipo diversissimo e di rilievo non assimilabile.

Il padrone delle ferriere e l’operaia, il produttore e l’aspirante diva, il regista di fama e l’attor giovine, il ministro e l’assistente precaria, lo scienziato e la specializzanda, evidenziano forme di asimmetria fra loro diversissime. All’interno di ciascun ambito è poi diversa la minaccia di togliere un «posto» già acquisito o il sottinteso e l’allusione di non favorire per un posto auspicato.

Un rapporto fra singoli, quando dà luogo a contenzioso, massime se si tratta di accuse gravi e gravissime, non può essere risolto sulla base della asimmetria sociale ma deve valutare il caso singolo. Altrimenti la responsabilità penale sarebbe di classe, di razza, di religione, di sesso, proprio ciò che la Costituzione esclude.

Il ricatto è una violenza, in molti casi tale e quale alla minaccia di un’arma. In altri no. Far intendere a un’aspirante attrice che un favore sessuale le darebbe più chance nel provino è disgustoso, una «proposta indecente», scambio di sesso per «altra utilità» anziché denaro, ma non è ricatto, a meno di non considerare ricatto ogni offerta di denaro o altra utilità (anche a una prostituta).

Il conflitto non è tra Uomini e Donne, ma tra donne da una parte e uomini civili e ugualitari o uomini che vogliono conservare privilegi e prepotenze, contando anche sulle donne assuefatte alla servitù volontaria. Farne una guerra tra sessi in quanto tale non solo è cattiva ideologia ma realizza concreti vasi portati alla Samo della diseguaglianza, o ennesima replica del gattopardesco cambiare tutto perché tutto resti eguale.

8 Ottobre 2018