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Vittoria Puccini graffiante gatta sul “Tetto Che Scotta”, in scena al Teatro Diana di Napoli

di Domenico De Gregorio

È un dramma, da camera, quello che va in scena al teatro Diana di Napoli, “La gatta sul tetto che scotta” di Tennessee Williams, per la regia di Arturo Cirillo, e, mantiene ancora oggi nonostante i suoi cinquantasette anni di età, la stessa forza ed intensità drammaturgica del suo debutto. Il battito cardiaco dello spettacolo è sempre accelerato, si respira a pieni polmoni e profondamente, lo spettacolo ossigena lo spettatore come la selva sullo sfondo ossigena, nei momenti più intimi delle confessioni umane, l’aria viziata della stanza dove la storia si dipana. La gatta sul tetto che scotta torna quindi alla sua tana iniziale, il teatro, dove il freddo e il calore delle parole velenose del testo possono starsene rannicchiati per poi colpire all’improvviso. La famiglia, è il bersaglio preferito di Tennessee Williams, che affila la sua penna per intagliare un graffito fatto di linee spezzate, fragili, di una pesantezza inconsistente. La trama è ben nota. Assistiamo alla festa di compleanno del ricco magnate di un prospero impero, capo famiglia che non sa ancora di essere ammalato di cancro. Se uno dei suoi due figli mira all’eredità insieme alla moglie, perennemente incinta, il secondogenito, Brick, sembra disinteressarsi di tutto, tranne che della bottiglia di whisky, mentre la sua consorte Maggie è disperata perché non riesce a diventare madre. La scenografia riproduce la stanza da letto dove l’intero spettacolo affonda le sue radici e dove si consuma la storia. Geometrico e iperrealistico, l’arredamento ha colori sgargianti, forti e men definiti propri di un’ America benestante, ipocrita e in fase di declino. Come labirinti sarcastici e graffianti di sentimenti irrisolti, i rapporti tra i personaggi si infittiscono, si inaspriscono e, alla fine, si allentano per far entrare piccole schegge di bontà. Tutti i protagonisti, dotati di una personalità forte ed ermetici, difficili da comprendere, via via iniziano a diventare quasi trasparenti, ad aprirsi, ad abbattere quel muro che divide la loro anima dalle convenzioni sociali, liberandosi completamente come fuochi d’artificio in aria. Maggie “la Gatta”, interpretata da Vittoria Puccini, che usa la voce come mezzo espressivo allo scopo di rendere evidente la personalità complessa e duale del personaggio, sembra dura e cinica, ma l’amore per il prossimo la marchia irrimediabilmente; il marito, Vinicio Marchioni, che da grande prova di se interpretando il ruolo che fu al cinema di Paul Newman, appare insensibile ed egoista ma è anche fragile e umano; il fratello e la moglie sembrano perbenisti e generosi ma sono rapaci e opportunisti; il padre di famiglia sembra aggressivo e avido è generoso e tollerante. Arturo Cirillo riesce a regalare ancora una volta la sofferenza e il disagio esistenziale legati a doppio filo a uno humour pungente e indispensabile, indovinando l’emotività primordiale e allo stesso tempo calcolata di un drammaturgo, che ha capito la falsità del suo e del nostro tempo come pochi altri.

Napoli, 12 aprile 2015