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Salvare il Partito Bene Comune

di Luigi Antonio Gambuti

Onore al merito, si dice in occasione di una vittoria conseguita a seguito di una competizione. Dovremmo, allora, dare onore alla Valente, uscita vittoriosa dalle primarie napoletane appena licenziate. Onore, peraltro, ai suoi compari, ai suoi mallevadori e ai suoi cacicchi locali, provinciali e regionali e, soprattutto, a quel direttorio nazionale che con l’elezione di Valente ha fatto tris con il Giachetti a Roma e il Sala a Milano.

Il piano di rappresentanza nella competizione elettorale delle amministrative di giugno prossimo venturo è stato così pianificato. Frutto di accordi e di compromissioni, dove il do ut des regna da padrone e gli equilibri del potere vanno giocati sulla disponibilità delle persone.

Fare riferimento alle vicende di Amendola e Migliore serve a chiarire la questione.

Persone di fiducia più del segretario che della maggioranza del partito. Messo in sordina da una conduzione autoritaria, a tratti ricattatoria, che trova la sua forza non tanto nell’autorità di chi lo dirige quanto nella debolezza e l’insignificanza di coloro i quali dovrebbero fargli velo per riportarne i gesti e le parole sul piano di un confronto democratico corretto e rispettoso.

Sconfitto Bassolino, lasciati a debita distanza i Marfella e i Sarracino, il partito napoletano che ha dato ragione a Renzi e alla Valente dovrà, d’ora in poi, giocare sodo per dimostrare quale caratura politico-amministrativa riconosce alla candidata a sindaco di Napoli. La Valente stessa, personaggio non di prima fila sulla scena politica locale, dovrà impegnarsi per recuperare, in nome del partito più che a nome personale,(c’è stata poco, molto poco sul tavolo da gioco per imputarle qualche debolezza o riconoscerle qualche forza!) quella fiducia che da troppo tempo non si trova negli ambulacri della politica napoletana.

Il partito che fu di De Gasperi e Togliatti, di Moro e Berlinguer e oggi di dem e cattodem, ridotto all’arroganza e al silenzio da una poco rispettosa azione unificatrice (riemergono i peccati di partenza tra laici e cattolici?) che s’incardina nel Renzi e nel cerchio bancario fiorentino, il partito, si diceva, deve ritrovare l’ordinarietà delle sue prerogative, deve proporsi alla gente e ai suoi estimatori facendosi portatore di interessi generali e punto di riferimento per incardinare programmi e tracciare prospettive.

Piuttosto popolari, che non di caste e potentati.

Cosi non è stato in questa competizione elettorale.

Parole su parole senza agganci ai problemi e alle domande dei napoletani, cui non basta promettere la riparazione delle buche nelle strade ,il recupero delle periferie dissestate, dei canoni inevasi e dei trasporti rivisitati, sino alla guerra alla criminalità organizzata e a quant’altro rende difficile la loro problematica giornata. Ci vuole ben altro per “salvare” Napoli.

Un’Autorità indipendente (che autorità sarebbe, altrimenti?); la capacità e la forza negoziale per affrontare e risolvere problemi; una voce alta e chiara per pretendere risposte; la corretta visibilità (abbasso gli stereotipi) sulla scena nazionale per incardinare la città nel quadro d’insieme degli interessi del Paese; la libertà di agire e di scegliere nelle controversie nate per rappresentare, nel contesto generale,l’interesse locale come prerogativa di un potere che si fa carico di risolvere i problemi. E la libertà di agire, si ripete, senza rispondere a padrini ed a compari; la messa in campo di esperienze sofferte e meditate e non contrabbandare nessuna prospettiva di carriera, cosa che naturalmente induce a compromessi per realizzare gradini significativi sulla scala del potere.

Sono questi i rischi cui va incontro la Valente. Giovane in carriera, propaggine locale di un potere centrale che tutto assorbe e riconduce alla valutazione dell’interesse generale. Ecco perché scrivevamo e dicevamo Antonio Bassolino. Non fosse altro che per la sua riconosciuta oggettiva indipendenza, per l’autorevolezza derivata da una lunga, varia e consolidata esperienza e, soprattutto, per la lontananza dichiarata da un centro di potere che si fa d’ora in ora sempre più invadente, condotto e dichiarato da una presenza che tutto affabula, travolge e porta decisioni a suo piacimento.
Legando la sorte del singolo alla sorte del plurale, con il rischio di “personalizzare “il destino dei suoi amministrati cosi come la storia recente ci ha insegnato.

E’ tempo, allora, di serrare le fila perché giugno si avvicina e l’unità del partito e la sua sostanza democratica devono rappresentare l’unica forza per affrontare la scommessa elettorale e conquistare la poltrona più importante della scena napoletana.

Non serve più, allora, ragionare di Bassolino e di Valente, di Marfella e Sarracino. Importa fare squadra di sistema come oggi s’usa dire; serve salvaguardare la storia di un partito che ha fatto la storia del Paese,considerandolo patrimonio universale e non nella disponibilità illimitata di un gruppo di potere sapientemente organizzato. Il partito è di tutti e a tutti va riconsegnato. E, se si articola in correnti, è per dare spazio alla diversità dei punti di vista e delle culture che ne sono l’anima costitutiva. La diversità, comunque, non può e non deve essere elemento di rottura. Essa deve essere vissuta come elemento di vivacità democratica e di spinta a ricercare soluzioni condivise, sicchè ogni proposta va ricondotta a sintesi.

Il partito è un bene immateriale di cui tutti siamo fruitori e di cui tutti abbiamo l’obbligo di preservarne in fondamenti teorici ed etico sociali. Il Partito Democratico, dunque, più degli altri perché nato dall’ unione dei due più rappresentativi assi culturali del novecento, è depositario di storie e culture che hanno tracciato e determinato le vicende del cosiddetto secolo breve.

Non è di Renzi,Carpentieri e Tartaglione (ma che coppia con l’aspirante a sindaco Valente..ci fosse stato Berlusconi!) ma è cosa mia, è cosa tua, è cosa collettiva, è patrimonio comune.
E’ necessario, allora,  che dal partito e nel partito si riallaccino le fila e si portino a sintesi i punti di un programma condiviso.
Occorre che si faccia squadra là dove ogni elemento si fa complementare e il meccanismo del governo gira in sinergia (niente fughe in avanti o tradimenti!) per contrastare gli avversari in campagna elettorale e nella gestione del potere e che si prenda il meglio di quanto offre Bassolino, delle fresche indicazioni di Marco Sarracino e delle sacrosante aspettative di Marfella.

Che il partito sia la voce della comunità organizzata e del singolo elettore e si ponga come incubatore di interessi collettivi e promotore di iniziative portatrici di sviluppo e indicatore di percorsi risolutivi. Non si faccia soggetto di governo, ma col governo stesso si ponga come interlocutore,per aiutarlo ad affrontare le difficoltà del governare.

Solo così facendo, le sorti di Napoli non più città derenzizzata, potranno giovarsi di una forza giovane, sostenuta da una cabina di regia, là dove tutti gli interlocutori si fanno solidali per raggiungere gi obiettivi comuni senza avanzare primogeniture. Questa va data alla funzione del partito, messo a servizio per la soluzione dei problemi di una comunità da troppo tempo trascurata. Napoli si salva solo se viene messa in condizione di reagire. Basta non lasciarla sola in mani forestiere e darle il tempo giusto per recuperare.

P.S. Si ha notizia che la commissione di garanzia nazionale ha respinto il ricorso di Antonio Bassolino. Per la terza volta ci aveva provato il vecchio leone afragolese per concorrere alla candidatura a sindaco di Napoli. Allo stato non si conosce cosa farà il perdente delle primarie napoletane. Organizzerà una lista civica? Se così dovesse essere viene ancor più facile la domanda: che fine farà il Partito Democratico? E, ancora, chi salverà il partito bene comune?.

Dedicato a “sora nostra morte corporale”. Che chiuda la sua macabra spelonca e rifiuti l’olocausto di vittime innocenti. Ce ne sono tante, troppe, “stese” per il mondo.

Napoli, 23 marzo 2016

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