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Il tempo: risorsa non rinnovabile, bene scarso…ma chi ce lo restituisce?

di Martina Tafuro

Lettera

In giardino il ciliegio è fiorito agli scoppi del nuovo sole, il quartiere si è presto riempito di neve di pioppi e di parole. All’una in punto si sente il suono acciottolante che fanno i piatti, le TV son un rombo di tuono per l’indifferenza scostante dei gatti; come vedi tutto è normale in questa inutile sarabanda, ma nell’intreccio di vita uguale soffia il libeccio di una domanda, punge il rovaio d’ un dubbio eterno, un formicaio di cose andate, di chi aspetta sempre l’inverno per desiderare una nuova estate…

Son tornate a sbocciare le strade, ideali ricami del mondo, ci girano tronfie la figlia e la madre nel viso uguali e nel culo tondo, in testa identiche, senza storia, sfidando tutto, senza confini, frantumano un attimo quella boria grida di rondini e ragazzini; come vedi tutto è consueto in questo ingorgo di vita e morte, ma mi rattristo, io sono lieto di questa pista di voglia e sorte, di questa rete troppo smagliata, di queste mete lì da sognare, di questa sete mai appagata, di chi starnazza e non vuol volare…

Appassiscono piano le rose, spuntano a grappi i frutti del melo, le nuvole in alto van silenziose negli strappi cobalto del cielo. Io sdraiato sull’ erba verde fantastico piano sul mio passato, ma l’età all’ improvviso disperde quel che credevo e non sono stato; come senti tutto va liscio in questo mondo senza patemi, in questa vista presa di striscio, di svolgimento corretto ai temi, dei miei entusiasmi durati poco, dei tanti chiasmi filosofanti, di storie tragiche nate per gioco, troppo vicine o troppo distanti…

Ma il tempo, il tempo chi me lo rende? Chi mi dà indietro quelle stagioni di vetro e sabbia, chi mi riprende la rabbia e il gesto, donne e canzoni, gli amici persi, i libri mangiati, la gioia piana degli appetiti, l’arsura sana degli assetati, la fede cieca in poveri miti? Come vedi tutto è usuale, solo che il tempo stringe la borsa e c’è il sospetto che sia triviale l’affanno e l’ ansimo dopo una corsa, l’ansia volgare del giorno dopo, la fine triste della partita, il lento scorrere senza uno scopo di questa cosa… che chiami… vita…
Francesco Guccini. “Lettera” è tratta dall’album D’amore di morte e di altre sciocchezze (1996)

“Metti giù il telefono o te lo disintegro sotto i piedi”, mi ripete come un mantra mia madre. A pensarci bene è vero, ormai sorveglio il cellulare moltissime volte al giorno, per paura di perdermi una notifica, ma non sono ancora al punto di non uscire per incontrarmi in videochat.

Tutt’altro, nel mio caso intavolo, quotidianamente ormai, edificanti discussioni in famiglia per il fatto che io viva la casa sotto l’imminente minaccia di un crollo e quindi sto sempre fuori.

E’ pur vero, però, che oggi si sta insieme, il più delle volte, virtualmente grazie alle videochat…si fa live chilling.

Perchè anche se l’interazione avviene in tempo reale, è questo un surrogato della solitudine, in quanto non c’è la fisicità della relazione e quindi c’è molta superficialità.

Tutti lo sanno, in cuor loro, ma non riescono a staccarsi, hanno troppa paura di perdersi qualcosa è la sindrome chiamata FoMo, letteralmente: paura di essere tagliati fuori, indica una forma di ansia sociale caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con le attività che fanno le altre persone e dalla paura di essere esclusi da un qualsiasi evento o contesto sociale.

In tutti i casi è la penuria di tempo il problema. Gli stati europei sono in crisi, rischiano il default, bisogna tagliare tutte le spese superflue. Nel cercare la soluzione, scopriamo che la risorsa più scarsa è il tempo. La mancanza di tempo non solo impedisce di aver ragione della crisi, ma ha creato un buco nero nella democrazia.

La grandezza di questo buco nero e talmente grande che non se ne ha conoscenza a memoria d’uomo. I governi, hanno le lancette su un altro fuso orario rispetto a quello dei loro popoli. Così i tempi dei mercati sono disarticolati dai tempi della democrazia. Basta un click per precarizzare o privare del tutto i popoli del lavoro, la volatilità dei prezzi delle materie prime significa affamare interi popoli e distruggere l’ambiente.

Questa maledetta globalizzazione, braccio armato del crescente necrocapitalismo, ha escogitato eleganti trucchetti per rubarci sempre più consistenti parti di tempo: dalla burocrazia all’intrattenimento, passando per l’erosione del confine tra tempo libero e tempo lavorativo. Il capitalismo ha fagocitato la nostra attenzione, ha monetizzato i nostri sentimenti come l’amore e l’amicizia.

Insomma, siamo tutti sopraffatti da questo male incurabile, che si chiama cronofagia, quella forma di predazione capace di proporsi con i volti rassicuranti del progresso, della libertà e dell’intrattenimento, un’appropriazione costante e pervasiva che mercifica segmenti sempre più ampi delle nostre vite e che depreda le masse del proprio tempo.

A rappresentare questa mia visione ho scelto la canzone di Francesco Guccini: “Lettera”. La sofferenza  dell’ uomo, quella che  vivono i senza lavoro, quella dei  popoli affamati dalla cupidigia  dei potenti, è raffigurata  dal cantautore emiliano nelle stagioni di vetro e sabbia.

Il vetro rotto  viene scagliato contro il cantante e la sabbia gli va negli occhi per le delusioni della  vita. “Chi ci da indietro quelle stagioni”, e come se la sofferenza umana, diventasse bene prezioso per l’essere  umano, perchè la sofferenza fortifica l’uomo.

Poi, Guccini, si domanda chi ci può ridare indietro la rabbia. Un uomo molto arrabbiato, in genere, lo è per due motivi: perchè il suo orgoglio viene  ferito e reclama vendetta, perchè ama, cerca di capire chi ama ma viene ricompensato solo con tanta freddezza, perchè la persona che ama non ascolta le sue parole.

Tu cerchi di aiutare un individuo a cui tieni e lui il tuo aiuto lo rifiuta e tu ti arrabbi. Ma poi, il cantante, parla dei gesti, delle donne e delle canzoni rilanciando con forza un’immagine  positiva. Tutti noi rivogliamo indietro quel tempo, che ha fatto risaltare la nostra grandezza d’animo, proprio attraverso i nostri gesti.

Vorremmo sempre indietro il tempo nel quale abbiamo molto gioito vivendo dell’amore del partner, un tempo che sembra lontano perchè è da molto che non gioisce più per amore. Io rivoglio indietro i miei sogni, perchè in fondo credo siano belli. Bello non sta a felice, una cosa bella può essere anche molto triste, infatti, i miei sogni ricorrenti, sono tutti tristi.

Lo scrittore rivuole indietro il tempo in cui si sentiva bene con quegli amici che ha perso, forse perchè  gli hanno voltato la  schiena, rivuole indietro i libri che ha divorato, perchè  c’era in un libro un personaggio nel quale lo scrittore si identificava, un libro messogli nelle mani da Dio.

Parla del tempo donatogli dal piacere del cibo, parla della soddisfazione di quei bisogni insiti in ogni uomo come la sete, anche se i bisogni degli esseri umani non sono circoscritti solo al mangiare e al  bere e al dormire ma sono anche di natura spirituale!  Spirituale come l’amore che si prova per un altro essere umano, e spirituale nei confronti di un altro Essere: Dio.

Un Dio che lo scrittore crede esser un mito, una favola, una leggenda, forse perche si  sente abbandonato da Lui. Però, quel tempo in cui credeva,  mentre ora dubita in  Lui, lo rivuole indietro.

Fa niente se è solo un mito, ma se lo è, è un mito che rivuole indietro. Sto sognando a occhi aperti, sto parlando di me. Ma il tempo, chi ce lo rende? Spero nessuno! Il passato è passato! Non ci si può immergere per due volte nell’acqua dello stesso fiume, questo perche l’acqua scorre e quando tu t’immergi per la seconda volta, l’acqua che ti bagna, non è l’acqua della  prima volta.

Il passato è tale perchè è passato e nessuno ce lo può ridare indietro. Il passato, si può solo rivivere nel presente e poi nel futuro. Magari nel presente e nel futuro ci capitano momenti simili al nostro passato, ma simili e non del tutto uguali.

Napoli, 9 aprile 2019