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Ai confini della vita.

di Giulia Di Nola

Svizzera, Olanda e Belgio sembrano essere i paesi europei più civili ed evoluti rispetto ai restanti membri del Vecchio Continente, fin troppo retrogradi, agli occhi delle prime tre nazioni, in materia di diritti umani quali la libertà d’un individuo, irreversibilmente malato, di morire quando e come vuole. Sia che si tratti di suicidio assistito, sia che si tratti di eutanasia passiva o attiva, l’importante è che si possa “scegliere” e che la libertà umana abbia l’ultima parola sul dolore e in ultima analisi sulla morte, posto che si possa scegliere tra immortalità e mortalità, tra l’essere eterni e l’essere umani.

E’ vero, le persone in questione sono segnate da patologie che non lasciano scampo; persone perseguitate dal dolore, dalla devastazione fisica che ne consegue, dalla perdita quotidiana di dignità. Un dolore che, giorno per giorno, si fa sempre più violento e che riduce l’essere umano a una larva, ghigliottinandogli la speranza; un dolore che s’abbatte su un corpo bisognoso di cure e di mani attente, sensibili, pronte a governarlo e gestirlo. Un corpo piagato e piegato dall’affaticamento e agli antipodi di una coscienza che, il più delle volte e specialmente in certe patologie, è lenta a offuscarsi ed è presente sino all’ultimo respiro. Intere famiglie coinvolte e distrutte assistono impotenti all’essiccamento dei propri cari.
F. Bacone ha introdotto, in ambito medico e per la prima volta, il termine eutanasia nel 1600 d. C., ma già T. Moro, 200 anni prima, parlava nella sua “Utopia” di “suicidio ecologico”.
Bacone invitava i medici, sulla scia di Ippocrate, a non abbandonare i pazienti inguaribili, sostenendoli nelle atrocità delle sofferenze e di non dare o procurare loro la morte.

Nel XIX sec. con il termine eutanasia si venne a indicare l’intervento medico teso all’uccisione per pietà: omicidio. In altri termini dal 1400 a oggi l’alleviare le sofferenze umane e il procurare una morte indolore si sono trasformate in omicidio e/o omicidio consenziente.
In tutti questi secoli, con l’industrializzazione e l’annichilimento dei valori, la razza umana ha pensato bene di tagliare corto anche sui costi del malato riducendo il peso del dolore e della morte a un imborghesimento morale ed etico. La morte è un’ orribile e triste realtà alla quale l’uomo non può e sa di non potersi sottrarre. Niente, nessun farmaco, nessun elisir potrà rendere l’uomo immortale ed eterno: egli resta infatti una creatura corruttibile con i suoi limiti e le sue indigenze in un mondo che, nonostante le sue precarietà, rimane, come spesso asseriva Leibnitz nei suoi saggi, “il migliore dei mondi possibili”.

Questo era quello che pensavo da cristiana innamorata della vita fino a quando, a distanza di dieci anni dalla morte di Welby, caso differente dalla Englaro, ho riletto l’appello che rivolse al Presidente Napolitano. L’angoscia, la disperazione e la richiesta in esso descritti non sono termini libreschi dal contenuto evanescente, ma il risultato drammatico del proprio vissuto e della propria condanna. Tutto quanto ho letto mi si è ripresentato in modo confusionale e gli interrogativi sulla vita e sulla morte hanno cominciato ad accavallarsi nella mia mente e a scuotere la mia coscienza senza mai interrompersi per più di qualche giorno. Così mi sono ricordata dei malati terminali di cancro e dei medici ospedalieri che, seguendo il protocollo, fanno ricorso alla cure palliative e, diciamolo pure, alla morfina.

C’è differenza tra alleviare il dolore e l’eutanasia, sapendo che prima o poi le sostanze oppiacee somministrate ai malati portano a un arresto cardiaco?
Ripropongo una frase dell’appello di Welby, un appello che dovrebbe essere letto da tutti noi, noi che, a volte e superficialmente, bestemmiamo la vita senza apprezzarne gli attimi, quelli semplici e meravigliosi che ci sfuggono ma che la impreziosiscono infinitamente.

“Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e il dolore altrui”.

Napoli, 7 maggio 2016