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Se potessi cambiare il mondo cosa faresti per cambiarlo?
di Martina Tafuro

Una società diventata liquida come il mare può generare tempeste, proprio come il mare…
Andrea Gallo

“Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni”.

Queste parole, scritte da Karl Marx nel 1852, ci invitano a riflettere sul fatto che non possiamo sempre parlare del mondo nel quale vorremmo vivere, quanto piuttosto occorre confrontarsi sul mondo nel quale dobbiamo vivere.

Indirizzato all’homo consumens del XXI secolo, questo messaggio sollecita a prendere coscienza che il benessere non può essere il semplice prodotto della ricchezza.

Il cittadino del ricco e opulento occidente consuma l’ambiente, così come una moltitudine di cittadini dei paesi poveri, infatti per ogni singolo nato nei paesi sviluppati, vi sono alcune decine di nascite in un paese povero.

Per cui molta popolazione che consuma poco danneggia l’ambiente, quanto poca popolazione che consuma molto.

Paradossalmente, però, è unicamente la povertà ad aver imposto, fino ad oggi, un freno globale al consumismo spinto e ha permesso al mondo ricco di sciupare risorse per accrescere ulteriormente la propria ricchezza.

E diciamocela tutta!

La povertà provoca degrado ambientale, così come sviluppo ed uguaglianza non vanno proprio d’accordo.

La risoluzione del problema è demandata al singolo, che deve farsi promotore della salvaguardia della Terra. Insomma, io cittadina semplice, che devo sapere sull’ambiente per poter incidere nel cambiamento delle cose?

Sicuramente non solo le norme ambientali, che scompaiono e appaiono con una velocità impressionante. La mera conoscenza delle norme non è sufficiente per avere un quadro completo della realtà, bisogna collocarle nel loro contesto sociale.

Viviamo nell’era in cui tutti si chiedono su chi deve fare ciò che va fatto, d’altro canto i nostri problemi sono globali e io possiedo solo mezzi locali per poterli risolvere.

La distanza tra i ricchi e i potenti e il resto del popolo è irreversibile, la massa non è più come una volta quando aveva un senso il concetto di rivoluzione, la globalizzazione ci ha appiattiti, non riconosciamo neppure più i nemici da combattere.

Adriano Sella, missionario saveriano, in “Come cambiare il mondo con i nuovi stili di vita”, propone di gestire le nostre società come se il futuro contasse davvero, il problema è trovare le soluzioni adatte per farlo, manipolati come siamo da un sistema in disfacimento.

Padre Adriano ci dice che è molto facile fare assistenzialismo, perché non richiede nessun impegno di cambiamento delle nostre abitudini. Ci si mette la coscienza a posto perché si è dato qualcosa in denaro o aiuti, mentre tutto continua come prima con stili di vita che generano un consumismo spietato, che svuotano la vita di relazioni umane.

Dobbiamo proclamare con forza che cambiando il nostro stile di vita, possiamo riconoscere tutti sullo stesso cammino e passo dopo passo costruire quel mondo dove tutti possano ritrovarsi alla stessa mensa della vita, con la responsabilità di garantire a ciascuno ciò che gli spetta di diritto, ciò di cui ha bisogno per un’esistenza dignitosa.

Diffondiamo allora questo virus e per contagiare tutti nell’impegno a cambiare tenore di vita, pratiche e scelte quotidiane fino a quando la pace e la giustizia si baceranno. Basta capire che riempire le nostre abitazioni di oggetti e suppellettili non equivale a riempire anche il cuore di chi vi abita.

Penso sempre che questo cambiamento è già cominciato, e sono tanti coloro che si impegnano per farlo crescere sempre più con generosità.

Il filosofo tedesco Ernst Bloch in “Il principio speranza”, scrive che l’uomo, con la sua capacità di anticipare i progetti più alti, mette in moto lo sviluppo storico (coscienza anticipante).

Tale forza si manifesta sia nelle piccole forme storiche quali: le utopie sociali, le aspirazioni che caratterizzano la vita quotidiana, sia nelle grandi concezioni religiose, filosofiche.

Bloch dallo studio minuzioso della natura della coscienza anticipante dell’uomo, fa emergere che il non/ancora è la verità più profonda che dà valore reale alla speranza, intesa non più come astratto sogno campato in aria, ma come docta spes, cioè insegna che l’uomo, come individuo, parte e attore della comunità è continuamente spinto a superare e a trascendere il vissuto quotidiano, sia nel pensiero che nell’azione.

L’uomo è un essere che va sempre oltre, con forza e capacità, nel disegnare il dinamismo della realtà.

La speranza allora, non è solo un atteggiamento sentimentale, ma concreta forza di voler costruire, con precisione razionale, il mondo reale.
Facciamo un passettino più in là e leggiamo: “La speranza non è in vendita” di Luigi Ciotti.

Il Don così la mette giù: “In un mondo d’ingiustizie sempre più intollerabili, la speranza rischia di diventare quasi un lusso, un bene alla portata di pochi. Ma una speranza “d’elite”, una speranza che esclude, in realtà è una speranza falsa. E per fermare questa compravendita di speranze di seconda mano bisogna trasformare la denuncia dell’ingiustizia in impegno per costruire giustizia”.

L’invito è rivolto a chi si indigna, ma non si impegna.

A chi chiude gli occhi davanti ai disgraziati, rendendoli invisibili. A chi trasforma la povertà e l’emigrazione in una colpa.

A certa Chiesa più ricca che coraggiosa. A chi privatizza la speranza tenendosela tutta per sé e lasciando agli altri le briciole.

La speranza consiste nel capire che si apprende a leggere il mondo che ci circonda, ancora prima di imparare parole e frasi.

Bisogna coniugare, come se fossero verbi, le parole speranza e libertà e metterle in relazione nella pratica rivoluzionaria di ogni giorno. In tutte queste forme essa non è qualcosa di puramente soggettivo, ma aspetto reale dello sviluppo concreto dell’essere.

La spinta a riappropriarci della speranza ci viene anche da don Andrea Gallo, che in “Non uccidete il futuro dei giovani”, così scrive: “Una società diventata liquida come il mare può generare tempeste, proprio come il mare. E magari anche tzunami. C’è il rischio che i nostri giovani, specialmente quando saranno scomparsi i genitori che li mantengono ben oltre la maggiore età, si ribellino in massa come i sans papiers parigini e i giovani tunisini”.

I problemi sociali sono quindi il mondo immediato di ogni essere umano, che affronta la vita con la volontà di divenirne soggetto.

Leggere la presenza opprimente e asfissiante dello sfruttamento e della manipolazione dell’esistenza è una forma embrionale di presa di coscienza, che permette agli esploratori di speranza di cercare un luogo in cui denunciare.

Questo perché, nella lotta sociale, in un primo momento, il sapere si manifesta nella forma della protesta.

La protesta, una volta trovato il luogo in cui potersi esprimere, si trasforma in denuncia; scaturita dal confronto tra persone che pur essendo titolari degli stessi diritti vivono in condizioni molto diverse. A sua volta, la denuncia si trasforma in critica e questa, spontaneamente, si trasforma in ribellione.

La lettura del mondo, con occhi nuovi e liberi, risveglia l’immaginazione che è desiderio di cambiamento.

Non mi sento parte di una macchina, di una squadra, di un pool indifferente e anonimo, sempre a chiedersi come, insensibile al perché.

Il vero radicalismo della nostra epoca, sta nel riconoscere che il bene comune è il bene che, superando l’appetito individuale, libera e unisce tutti.

La misuro, giorno per giorno, sulle mie capacità, sulla necessità di andare oltre, di superare le difficoltà. E’ pur vero che possono esserci eccessi, dovuti all’abbandono sociale, in quanto sono stata lasciata sola a centrocampo, nella mia partita della vita.

Non c’è problema!

Mi nutro di speranza per una continua ricerca di soluzioni, questo alimento diventa qualità necessaria per lo sviluppo umano dei miei sacrifici, in fondo produco, consumo e genero speranza a costo zero e rispettoso dell’ambiente.

Troppo a lungo il capitale ha puntato a ridurre il ruolo del lavoro di relazione, sino a dichiarare il non lavoro sociale come felicità.

La posta in gioco non è il guadagno della posizione  di alcuni, ma il futuro che costruiremo insieme.

Napoli, 20 febbraio 2020