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Nutrirsi e non essere nutriti. Riflessioni sul cibo dal sapore amaro.

 di Martina Tafuro

 Anno Domini 1985, nello stato americano dell’Indiana, Forrest Davis, un operaio saldatore specializzato, decide che è venuto il momento del suo american dream, mettersi in proprio e realizzare il suo sogno.

Fonda la  Goliath Casket (il feretro di Golia), premiata società di servizi funebri. Dopo un’attenta analisi del mercato rileva che il quindici per cento degli emancipati e paffuti suoi concittadini sono in sovrappeso, intuisce che il mercato è in forte espansione. Invade, perciò, il mercato con un’offerta di prodotti che non ha eguali.

Nasce il mercato della bara gigante!

E’ un successo strepitoso e allora Forrest, da un solo modello all’anno dell’esemplare a tripla grandezza offerto con solo due dimensioni e un colore, passa a piazzarne più di cinque… al mese. L’offerta è comprensiva di una gamma completa di formati a partire da 2 fino a 52 pollici di larghezza e una lunghezza massima di 8 piedi, nelle varianti blu, bronzo e oro e nella versione deluxe la si può abbinare con maniglie dorate e cuscini imbottiti.

Insomma, Dio è morto e gli obesi, solo e soltanto loro, sono responsabili della loro triste condizione, non sono capaci di tenere a freno il loro vorace istinto del trangugiare spasmodicamente.

Perché avviene questo? Perché  analizzare il tema dell’obesità, significa indagare a fondo sul modo di vivere delle cosiddette società avanzate, infatti gli innumerevoli maestri spirituali del dio cibo distolgono l’attenzione dal reale problema.

Nel 1996 esce nelle sale SubUrbia un film diretto da Richard Linklater, basato su testo teatrale di Eric Bogosian. E’ il ritratto amaro della provincia americana, in cui alcuni ragazzi si ritrovano nel parcheggio di un market gestito da due pakistani, aperto tutta la notte. Tra chiacchiere e alcool, c’è chi progetta di lasciare la città, sperando in un futuro migliore e chi invece non vuole lasciare quel piccolo e rassicurante universo. Ho avuto modo di vederlo in un recente incontro in parrocchia e dal dibattito scaturito dopo la visione è venuto fuori che è opportuno chiedersi se non sia auspicabile che il business globale dell’alimentazione esali l’ultimo respiro e nascerà un esercito liberatore che distruggerà l’insostenibile cultura dei suburbia, le sterili periferie di lusso.

Prendiamo il Vulcano Buono, il centro commerciale costruito a ridosso del Cis di Nola, non è altro che un santuario vuoto, luogo affollato di anime in cerca di un spazio usato per sedute collettive di psicanalisi sociale spicciola, con al centro lui: il cibo, la suadente ossessione dell’ homo oversize.

A Cancun, nel 2003, si trattò la liberalizzazione completa della produzione agricola e alimentare, con l’equazione cibo uguale merce si pretese di regolare la produzione agricola del pianeta in modo che ogni contadino lavorasse per un mercato mondiale.

In quella infausta sede, si decise la completa supremazia del commercio e delle sue regole su tutti gli accordi internazionali sull’ ambiente in nome del diritto alla libera concorrenza globale.

Prima di invitare i super amministratori del pianeta a leggere tutti i testi che i babilonesi dedicarono alla zappa.

Comunque sia, è innegabile che le merci nascono dalla natura, poichè ogni attività umana diretta a produrre un bene o un servizio, ha conseguenze sulla natura, nel senso di toglierle materia nobile, energia, acqua, calore, E al tempo stesso aggiungono scorie e inquinamento. Lo sviluppo è sempre insostenibile. Questo non vuol dire che occorra stare fermi e seduti, o viceversa che, essendo tutto inutile, sia molto meglio lasciar fare, lasciar passare.

Dobbiamo decidere se vogliamo dare un futuro all’umanità e allora c’è bisogno di costruire una società fondata su altre regole economiche e su nuovi stili di vita.
In ogni caso, il diritto al cibo è innegabile e irrinunciabile da parte di qualsiasi essere umano.

Non è utopia questa!

Napoli, 6 agosto 2018