Non c’è politica senza partito
Non c’è politica senza partito
di Luigi Antonio Gambuti
Domenica 14 ottobre 2007 si celebrarono le nozze tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. Per ragioni di spazio abbiamo semplificato la caratura identitaria dei due contraenti il matrimonio. Senza parlare dei compari. Essi venivano da una stagione tormentata da forti contrasti interni che avevano agitato le case di appartenenza;da scissioni e aggregazioni spurie e quasi sempre di convenienza, nate per accaparrarsi il potere e per fronteggiare i pericoli che, ad ogni tornata elettorale,si materializzavano con la paventata vittoria di forze politiche e di movimenti estranei alla storia del Paese.
Dopo la triste stagione di tangentopoli,con la sconfitta dei partiti politici tradizionali che vi erano stati coinvolti uscendone con le ossa rotte- c’erano ancora,ma con strutture, nomi e programmi diversi per recuperare la loro forza elettorale e darsi un assetto organizzativo capace di rimettere in moto la macchina della fiducia e della partecipazione -,si diede avvio ad un processo di bipolarizzazione che facesse rinascere attorno ai due grandi assi politici storicamente riconosciuti la credibilità perduta e gravemente compromessa.
Fu cosi che le forze di sinistra riformiste e progressiste e le forze moderate, provenienti da culture legate al cristianesimo democratico,al liberalismo sociale, alla socialdemocrazia e al cristianesimo sociale, si aggregarono nell’Ulivo per contrastare le forze elettorali di centro-destra che, a loro volta, si erano accorpate dando vita alla Casa delle Libertà di Silvio Berlusconi.
Al primo vaglio elettorale, nel 2006, l’Ulivo-così fu chiamata la coalizione- vinse le elezioni con Romano Prodi Presidente del Consiglio, sì che i partiti sostenitori della lista vincente decisero di accelerare ed orientare la politica di avvicinamento reciproco verso la fondazione di un partito unico che raccogliesse al suo interno le forze democratiche e moderate , cattoliche e conservatrici e quelle progressiste, socialiste e riformiste , espressione dei due partiti che ne costituivano l’assetto principale.
Cosa che avvenne nell’autunno del 2007, come abbiamo scritto all’inizio di questa riflessione, con la nascita del Partito Democratico.
Non ci soffermiamo, per evidenti ragioni di spazio, a tracciare la storia del partito democratico che dal 2007 ad oggi ha segnato il destino del Paese.
Ne’ siamo nostalgici delle vecchie vicende democristiane che nel bene e nel male hanno scritto la storia degli anni dal dopoguerra ad oggi. Il partito che fu di De Gasperi e Fanfani fu scosso da dinamiche interne che ne scavarono profondamente l’assetto culturale a causa della natura eterogenea delle sue componenti.
Non da meno fu l’altro contraente, il Partito Comunista Italiano, il partito che fu di Gramsci e Bordiga e che conobbe nella sua lunga storia diverse scissioni e successive ricomposizioni; si definì con diverse sigle sino a darsi il definitivo assetto come un Partito dei Democratici di Sinistra , il DS che restò come baluardo a difesa del riformismo democratico, progressista e socialista. Da questi due soggetti nacque il Partito Democratico, forte di una dotazione elettorale capace di vincere la sfida di un centro-destra egemonizzato da Silvio Berlusconi, che ne fu mentore e padrone, raccoglitore dei cocci che venivano dalle scissioni dei gruppi sopravvissuti alla tempestosa vicenda di tangentopoli.
Dal 2007 in poi diverse vicende hanno tracciato la storia del Paese, chiamando i partiti e per essi la politica, a farsi carico della loro soluzione.
Il Partito Democratico,consolidato nella struttura e nondimeno attraversato dalle correnti interne che spesso ne hanno messo in discussione l’assetto unitario, ha tenuto campo contro un avversario che poco a poco si è “suicidato”, consegnandosi nell’abbraccio mortale del lepenismo di Salvini. In presenza di una crisi economica che non ha pari se non quella devastante della fine degli anni ’20 del secolo passato, il Partito si è trovato a proporre soluzioni sul campo che ne hanno a tratti stravolto l’assetto culturale-ideologico originario, dando sostegno a governi”tecnici” per fronteggiare gli effetti che ne sono derivati. Cosa che ha determinato l’alienazione della politica dal dibattito reale sui problemi della gente, così come avveniva nelle sezioni dei partiti.
Prima Monti con i suoi esperti; poi Letta , rasserenato e liquidato; poi Renzi, Capo del Governo e Segretario Nazionale del Partito. E’, Renzi, il figlio “giovane”, nato dal connubio celebrato nel 2007.
Che figlio è questo rampante quarantenne spavaldo e supponente che sta amministrando le sorti del Paese?.
Cosa ha ereditato della natura dei suoi genitori?
E, soprattutto, quale virtù politica va praticando sì da identificarsi con le tesi di uno o tutti e due dei suoi predecessori?
Quanto del doroteismo democristiano e quanto del massimalismo comunista?
Non siamo nostalgici delle sigle e delle mode;non rimpiangiamo le convergenze parallele, il CAF e l’area ZAC, le Margherite, i Girasoli, i Garofani e gli Ulivi, tantomeno le Balene bianche, la Camilluccia e le Frattocchie e i Trinariciuti di Giovannino Guareschi.
No, stiamo cercando di capire dove “situare” il Renzi capo del governo e ancor più capo del partito, cosa, quest’ultima, che spegne ogni contraddittorio sulle scelte dell’Esecutivo.
E cercare di capire se il Partito è partito e non è più….ritornato,visto che si è ridotto a registrare, a furia di minacciare il tutti a casa(quanta paura per i peones senzapotere!) tutto quanto dispone il segretario tuttofare che, democraticamente, fa fare a tutti quello che vuole lui.
E se sia ancora il caso di parlare di politica, in una deriva paraautoritaria che impone a maggioranza risicata e/o contrattata scelte che dividono il Paese, che mortificano il senso di realtà con atteggiamenti rigidi che non danno spazio a discussioni o a proposte alternative su cui costruire percorsi diversi da quelli imposti senza confronto con le parti interessate.
Cosa c’è da pensare se i provvedimenti del presidente quattrovolteventi sono condivisi dai gruppi di potere e contestati dai lavoratori?
A chi ha giovato il nuovo statuto del lavoro; a chi giovano la riforma elettorale e la politica delle riforme costituzionali?
Sono domande legittime che esigono risposte dopo attenta e onesta riflessione, anche in presenza dell’ emergenza di nuove aggregazioni che cercano di occupare gli spazi abbandonati dalla fuga dei partiti.
Cosa mai ha generato la “cosa rossa”; cosa sarà mai la “cosa nera”, quali saranno le motivazioni di fondo che hanno dato vita a queste creature ;chi sta alle spalle di questi ragazzi quarantenni; chi detta le parole alle ministrelle, giovani e belle che stanno demolendo l’assetto delle strutture dello Stato? Sono domande che stanno sulla bocca della gente, quella gente che lottava per le bandiere dei partiti, discriminandone i colori e che oggi si sente orfana di punti di riferimento nell’ afasia del dibattito politico tradizionale.
Cambiare sì, caro Presidente, ma cambiare assieme con la dovuta attenzione all’ascolto, al confronto e alla comprensione, là dove si realizza la partecipazione, la vera essenza della democrazia che, vivaddio, ancora è viva nelle aspettative di questo sfortunato Paese.
Napoli, 15 novembre 2015