sab 16 NOVEMBRE 2024 ore 14.38
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LA PRUDENZA, QUESTA SCONOSCIUTA
di Luigi Antonio Gambuti

Che la prudenza sia una delle virtù cardinali più reclamate e meno praticate dell’agire umano è fuori discussione.
Della prudenza, di quell’arte dell’attenzione e della misura nei comportamenti e nei rapporti di un soggetto titolare di diritti e oggetto di doveri in quanto membro responsabile di una comunità organizzata, si è sempre discusso e se ne sono date diverse interpretazioni. Essa è stata universalmente definita una virtù, come prima si è accennato.

“Da la prudenza vengono li buoni consigli, li quali conducono sé ed altri a buono fine ne le umane cose e operazioni”, scriveva il padre Dante; è qualcosa, la prudenza, che suggerisce, a chi la pratica, di farsi delle domande, prima di intraprendere una qualsiasi operazione, di assumere un qualsiasi atteggiamento. Ciò vuol dire chiedersi, prima di agire, se è opportuno farlo; se è il tempo giusto; se le parole che si usano, i gesti, o quant’altro si mette in campo sono adeguati allo scopo che si vuole perseguire; se è adeguato il modo con il quale si propone l’oggetto da mettere sotto attenzione; se l’oggetto in discussione è di natura comprensibile sì che l’interlocutore cui ci si rivolge sia in grado di capirlo e via dicendo, per rappresentare i vari contesti in cui vanno a cadere le azioni e le parole che meriterebbero, meritano, l’agire con prudenza per evitare di fallire nell’impresa o di disturbare-rovinare il rapporto-sistema in cui va a cadere il nostro operare. Sin qui un punto di vista sul concetto e sul significato di prudenza. Si tratta di quest’argomento perché lo si ritiene di forte attualità per la sua ormai consolidata assenza nei rapporti interumani, portati, come siamo, a vivere di corsa, incalzati dagli eventi, frastornati dalle masse, incapaci di sostare per riflettere prima di intraprendere l’agire. In ogni campo in cui l’uomo si fa protagonista, o dove, perlomeno, deve significare la sua presenza in maniera responsabile, perché titolare di funzione sovraordinata rispetto a chi vanno destinate le sue decisioni.
Prendiamo in esame la “prudenza” agita e diffusa da Papa Francesco. Che il Santo Padre non abbia le virtù dell’accortezza e della rettitudine non si può in alcun modo contestare. Che abbia nei suoi gesti quotidiani e nelle sue parole il senso del rischio della temerarietà-il coraggio dell’osare-non si mette in discussione.  Sin dall’inizio della sua “predicazione” si è azzardato a demolire il consolidato e vetusto apparato di apparenze; si è lanciato coraggiosamente, francescanamente, nella modernità esasperata con la tenerezza di un neofita, con il candore di un fanciullo. Con il fioretto al posto della spada. Signore del perdono, non giudice della condanna. Forte è stato l’impatto della sua parola quando ha detto, rivolgendosi ai fratelli in veste di peccato: chi sono io per giudicare?

Letta da lenti informate del Vangelo, nulla da eccepire, soprattutto se si fa riferimento alle parole di Gesù che invitava a scagliare la prima pietra per giustiziare la peccatrice.

Di fatto, in quell’occasione, nessuno osò muovere mano per ferire e ognuno la ritrasse per riflettere e farsi, prudentemente, l’esame di coscienza. Erano tempi diversi; diverso era lo spazio dell’azione; diversa era la cultura del contesto. Oggi, a duemila anni di distanza, tutto è cambiato. Su tutto, l’arroganza dell’uomo, che dell’onnipotenza del Signore si è appropriato e si è messo alla pari,infoiato di libertà, lontano da vincoli, men che meno da quelli religiosi (religio-vincolo).

Come e con quale ricaduta si è realizzato l’interrogativo di Francesco?

Il chi sono io per giudicare va letto, a parernostro, come un gesto d’imprudenza, perché, caduto nell’attuale disastrato deserto valoriale non ha fatto altro che destabilizzare quel poco di certezza ch’era rimasta nella condizione umana.
Tutto si reputa fungibile, tutto si mette in discussione, tutto è relativo. Anche e soprattutto i comportamenti concernenti la sfera familiare, là dove l’elemento cementificatore del rapporto, l’amoreconiugale, è stato profondamente ridimensionato. Chi sei tu per giudicare?
Mai o quasi mai ci si pone la domanda: chi sono io per giudicare, frutto di quella virtù cardinale. La prudenza, appunto, che dovrebbe essere la categoria portante di ogni relazione.  In-prudenza del Papa?

No, fiduciosa, troppo fiduciosa considerazione dell’uomo capace di farsi giudice di se stesso e di vivere nella misericordia il rapporto coi fratelli in nome di Cristo, primo ed unico soggetto di comprensione e di perdono.

Dall’”in-prudenza”papale, se ci si guarda intorno e si osservano i comportamenti di villici e signori, si trova disseminato dappertutto il peccato dellaleggerezza nei comportamenti dell’agire.

Così come le parole del Papa male interpretate hanno alimentato un lassismo valoriale e un ricorrente scavo dogmatico, così la politica va quotidianamente giocando la partita sul filo dell’imprudenza.
Intendiamoci: fa bene il venir fuori di scandali e magagne della classe politica, perché induce alla presa di coscienza della responsabilità in capo a chi gestisce il destino della gente.

Fa male se l’imprudenza colpisce anche coloro i quali sono destinatari di diritti che, per il mancato esercizio della principale virtù cardinale, scontano difficoltà e ritardi nel godimento dei beni e dei servizi di cui sono titolari. Che dire delle intercettazioni telefoniche, di confidenze in tema di amorosi sensi, delle scivolate sul terreno infido delle relazioni istituzionali; della politica gridata e delle passerelle recitate su palcoscenici cambiati dalla sera alla mattina?

Se i comportamenti in-prudenti comportano lo sfascio degli apparati, lo squilibrio dei sistemi e il disvelamento delle consorterie è bene che ci siano, perché rappresentano, al di là del danno sociale, anche e soprattutto la rigenerazione del tessuto politico-istituzionale.

Così per Higuain, titolare del fatto più recente che non ha saputo esercitare la prudenza nei suoi alterchi con gli avversari e il direttore di gara, l’altro mezzogiorno.
Se fosse stato più accorto, meno avventato e meno temerario, o forse meno spavaldo, avrebbe fatto meno danno a sé e alla squadra. Qualcuno gli avrà suggerito di essere prudente?

Così nella famiglia, là dove ormai raramente ci si domanda se certi atteggiamenti sono prudenti o se questa virtù possa o meno trovare residenza nella relazione della coppia genitoriale, nella relazione tra genitori e figli e tra costoro e il resto della famiglia.

Così nella scuola, vivaio di relazioni umane per eccellenza. La prudenza dovrebbe essere l’esercizio quotidiano attraverso il quale rappresentare la retta norma di tutti i comportamenti.

Prudenza nell’accompagnamento dell’apprendimento, prudenza nel correggere atteggiamenti e prudenza nella realizzazione dei rapporti umani-e ce ne sono tanti-che devono essere fondati sul rispetto e sulla condivisione.

E allora?

Finiamo con San Tommaso, il quale dice che esercitare la prudenza fa conferire al gesto o all’azione che uno sta per compiere la massima perfezione di tutti gli equilibri personali e relazionali.
Allora il gesto porterà gli effetti postivi che si desiderano.
E noi, prudentemente, licenziamo questa pagina con la speranza di aver indotto qualcuno a qualche riflessione.
DEDICATO A ZAHA HADID, STELLA DELL’ARCHITETTURA, PARTITA ANZITEMPO DALLA “SUA” STAZIONE PER L’ULTIMO STRUGGENTE VIAGGIO NEL SUBLIME.

Napoli, 10 aprile 2016