Homo Faber o Animal Laborans? Matteo Tafuro. Nola
Homo Faber o Animal Laborans?
di Matteo Tafuro
“Dobbiamo consumare, oserei dire divorare, le nostre case e i mobili e le automobili
come se fossero buone cose della natura, che si guastano se non sono trascinate rapidamente
nel ciclo interminabile del ricambio dell’uomo con la natura […] La richiesta universale di felicità
e l’infelicità largamente diffusa nella nostra società sono i segni più convincenti che viviamo
in una società dominata dal lavoro, ma che non ha abbastanza lavoro per esserne appagata”
Hannah Arendt: Vita activa
Pianeta Terra il 2024 è finito!
Il 2025 è appena nato e ci si ritrova a discutere del lavoro che non c’è e su quello che sarà.
Possiamo fare una riflessione su quella concezione del lavoro che, certamente, non è esclusivamente quello che ti assicura uno stipendio equo, ma anche quello che nutre la fame ad autorealizzarsi, saziandola di opportunità e di occasioni, elementi capaci di moltiplicare socialità e desideri.
Profondi cambiamenti hanno modificato radicalmente i mercati e il mondo del lavoro, rendendo l’intero quadro sociale e le organizzazioni instabili e in continua evoluzione. È diventato obbligatorio mettere la persona e le sue capacità in primo piano, sia in veste di cliente che di fornitore o di collaboratore, mettendole in competizione continua e pressante.
D’altra parte, l’affermazione della tecnologia all’interno dei nuovi meccanismi di produzione del valore, ha posto al centro del dibattito il tema della qualità dell’occupazione.
Frederic Laloux in Reinventare le organizzazioni, pubblicato nel 2016, esamina la capacità di penetrazione della tecnologia nel mondo lavorativo, sottolineando che ciò che accomuna le nuove forme del lavoro: la gig economy, la on demand economy, le app economy, è prima di tutto un uso del lavoro totalmente diverso da quello che abbiamo conosciuto sin ora. “Il lavoro, spesso, è svuotato della sua vera natura e assume utilità nella misura in cui fa funzionare un sistema sempre più distribuito e frammentato, dove i confini e l’identità dell’occupazione tendono a sfumare e a diventare impersonali e liquidi tanto quanto quelli dell’impresa”.
Insomma, sembra di capire che l’intero ambito dell’universo lavorativo è vittima della provvisorietà e della precarietà, propagatosi a macchia d’olio nelle economie che fanno dello sviluppo tecnologico il meccanismo su cui innestare nuovi e sempre più remunerativi modelli di business, voracemente orientati a massimizzare il profitto attraverso relazioni sistematiche in combutta con il sistema economico/sociale che le circonda.
È palese che l’infrastruttura alla base di questi modi di produrre lavoro, la cosiddetta condivisione, tende a trasformare geneticamente le istituzioni seguendo due diverse traiettorie. Da un lato cresce il valore di tutte quelle meta-competenze, utili per gestire la complessità e produrre soluzioni, ad esempio quelle capacità personali che sviluppano creatività e equilibrio, così come quelle relazionali che accrescono le capacità di cooperare per il raggiungimento degli obiettivi, come l’etica e la tolleranza, che ritornano utili per gestire lo stress prodotto da relazioni disfunzionali e quindi adottare comportamenti adeguati a norme e valori condivisi.
Dall’altro versante, osserviamo che il lavoro alimenta, continuamente, un forte peggioramento del benessere individuale e della coesione del tessuto sociale, nonché processi di impoverimento.
Vi ricordate la storia di Foodora, l’azienda tedesca fra le più importanti di consegne di pasti a domicilio? Il Tribunale di Torino, nel 2016, ha respinto il ricorso di sei fattorini che avevano intentato una causa contestando l’interruzione improvvisa del rapporto di lavoro con Foodora, decisa dalla società dopo le proteste per chiedere un trattamento economico e normativo più equo. In sintesi, il giudice ha stabilito che i fattorini non sono dei dipendenti di Foodora, ma dei lavoratori autonomi e che di conseguenza l’azienda tedesca può decidere in ogni momento di interrompere il rapporto di lavoro.
Qui, in evidenza viene proposto che il problema di come trovare un compromesso fra la libertà delle aziende di muoversi nell’area grigia come quella dei lavoretti tramite app e la necessità di tutelare le persone che lavorano per aziende del genere. Da una parte le aziende intendono il lavoro, per loro, quasi come qualcosa da fare nel tempo libero e quindi non bisognoso di eccessive regolamentazioni, ma poi sempre più spesso questi lavoretti diventano l’occupazione principale di molte persone. Senza opporre una forte resistenza civile siamo passati da cittadini- lavoratori a cittadini-consumatori, poiché in questa maledetta quarta rivoluzione industriale il capitale per la sua valorizzazione ha più bisogno dei consumatori che non dei lavoratori.
Povero Adam Smith che apre il suo Ricchezza delle Nazioni, con l’affermazione che per secoli l’umanità si è attenuta all’idea che all’origine della creazione di ogni ricchezza ci fosse il lavoro umano, dell’uno o dell’altro tipo. La scienza economica, ormai, si occupa solo delle funzioni e dei modi efficienti di come utilizzare il lavoro e non più della sua natura. La cultura economica, di conseguenza, esalta e deprime, al tempo stesso, il lavoro, facendolo diventare in molti casi la nuova misura di tutte le cose.
Hannah Arendt, afferma che è stato creato un nuovo tipo di uomo: l’homo laborans. Allora, come creare un contesto nel quale il contributo delle persone come singoli e come collettività sia realmente valorizzato in una società attiva e sostenibile?
La risposta è mettendo al centro del palcoscenico che “il primo, valore che ci deve guidare in questa sfida è la centralità della persona, in sé e nelle sue proiezioni relazionali: la famiglia, quale luogo delle relazioni affettive; il lavoro, quale espressione di un progetto di vita; la comunità e il territorio, quali ambiti di relazioni solidali”.
Nola, 3 gennaio 2025