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Falce, martello e zappa.

di Giulia Di Nola

Periferia di Roma: un ragazzo di 23 anni viene ucciso a martellate e coltellate durante un festino, pianificato da presunti amici, a tutto alcol e cocaina.

Nessuno, credo, abbia dimenticato una simile vicenda dai risvolti macabri e perversi; tutti si son chiesti il motivo di tanta efferatezza.
“Per il piacere di uccidere” è stata la glaciale risposta che gli assassini hanno dato agli inquirenti come se poi, il fornirne una, possa rendere, in genere, accettabile, o meglio giustificabile, un omicidio.

E’ sconvolgente come per quei giovani il “piacere” di togliere la vita sia lo stesso di quello che si prova nel contemplare le fattezze di un’opera d’arte o nel degustare un gelato in una calda giornata estiva. E’ annichilente più del nichilismo e del nullismo radicati nella odierna società, ormai minata alle basi, da un disarmante ateismo e da un avvilente “nazismo” dei valori etico-morali.

Mi chiedo se si tratti solo di questo o se stiamo assistendo ad una nuova forma di necrofilia. No, non penso ci si possa fermare a questo.
Hannah Harendt nel suo “Totalitarismo” prima e in seguito ne “La banalità del male” descrive il male come “incapacità di pensare” da parte di persone normali, quindi non stupide; non si tratta di mostri che, non utilizzando il ragionamento, si dirigono verso la superficialità della vita e verso il male. Si tratta, invece, di persone che, similmente ad automi, eseguono leggi e precetti attraenti che rappresentano il midollo di sistemi burocratici, di aggregazioni e gruppi, corrotti e infernali sin nel loro nascere e che riescono a trainare e fuorviare l’intelligenza umana.

E ritornando ai nostri giorni, possiamo constatare che in tutti i settori culturali e antropologici quella “incapacità di pensare” domina e striscia indiscussa, sibillina senza che si possano prendere seri provvedimenti specialmente per i giovani. Perciò, parallelamente alla corruttela politica, alla scarsa e inesistente presenza genitoriale, s’affianca quella compiacente della scuola d’ogni ordine e grado. Una scuola nozionistica in netta contraddizione con massicci e futuristici sussidi tecnologici tesi, a ragion veduta, all’inserimento, direi utopistico, del soggetto nel mondo lavorativo ma che non insegna ai discenti quel sano e civile “colloquiarsi”: la capacità di pensare è sostituita dagli schermi algidi di un computer.

Il solipsismo che scaturisce da questo colloquio senza colloquio (perché colloquio non c’è) conduce il soggetto all’isolamento, all’autismo e all’incapacità di distinguere, anche nei processi aggregativo-sociali, il reale dal virtuale; non c’è quindi più differenza tra l’idea o l’immagine di un fiore e un fiore realmente colto in un campo e annusato, l’uccidere un avversario in un videogioco e un proprio simile nella realtà.

Ciò ha generato una spaccatura psichica nel singolo e tra quest’ultimo e la realtà sociale.

I giovani, insomma, s’incontrano solo per il piacere distorto di sballarsi e quello folle di uccidere o prendere di mira un coetaneo (bullismo); son tutti modi, come altri, per passare il tempo e non annoiarsi. Si tratta, però, di un’indisciplinata esuberanza di forze chimico-fisiche immagazzinate nelle ore trascorse al computer, a scuola e a casa, che devono trovare per forza maggiore uno sfogo.

Riaccostare concretamente i giovani alla physis, promuovere piani di studio orientati al contatto con la natura e al lavoro compiuto nei campi per assaporarne le fatiche, sarebbe non soltanto arricchente per lo spirito ma darebbe anche sfogo a tutta la rabbia interiore, velenosa e distruttiva, dovuta anche a processi ormonali; in tal modo la sera, senza troppi grilli per la testa, si potrebbe andare a letto sfiniti e felici di sognare.

Napoli, 3 aprile 2016