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Compagni di Viaggio
di Ileana Ambrosio

Partire mi restituisce al ritmo della vita e viaggiare mi insegna a perdermi senza paura,. Mi sorprendo a godere divertita degli imprevisti che mi fanno cambiare punto di vista. h.9.00 Arrivo alla stazione, biglietto kilometrico: quando non ho le idee chiare, lascio aperta ogni possibilità. In treno mi siedo accanto al finestrino e assorta osservo la scia che trascina le immagini: un blob in cui posso sciogliere tutti i ricordi-addii-sogni da lasciar andare per fare spazio al nuovo.

Arrivata al capolinea il fischio del capotreno s’infila come una goccia di acqua fredda nel mio collo e la sua voce è un tamburo che scuote le mie tempie: non scegliere non è possibile e quando rimandiamo una decisione sarà l’altro o il corso della vita a guidarci a volte meravigliandoci e superando ogni disegno immaginato. Alla stazione la mia attenzione viene colpita da un uomo con un cappello a cilindro. Intorno a lui c’è un gruppo di gente, dietro un camper e uno striscione con su scritto “Compagni di viaggio. Associazione onlus”. Finisco il mio ghiotto boccone colma di gratitudine per la cultura gastronomica di questa città e mi avvicino incuriosita verso il mago di Oz. Mi scorse, mi si avvicinò e a bruciapelo mi chiese : Che cosa significa lavorare? Sorpresa per quella domanda abbozzai una risposta razionale : Mah… fare un’attività e ricevere dei soldi per ciò che si è fatto…Tutto qua, solo questo? Una visuale un po’ strettina signorina, troppo striminzita per una presenza accogliente e solare come la sua … Risentita per non aver saputo dare una definizione più soddisfacente, di rimando, chiesi, altrettanto a bruciapelo: Me lo dica lei allora, sono tutta orecchie. Lo esortai sorridendo. Ed è così, che scoprii la mia ignoranza. Non sapevo che in giapponese il verbo “lavorare” (hataraku) significasse etimologicamente “dare sollievo” (raku) alle persone che ti circondano (hata)(1). In questo senso il volontariato potrebbe essere definito come il lavoro dei lavori. Infatti, il lavoro come creazione di valore dovrebbe produrre sempre bellezza e bontà oltre al guadagno. La maggior parte delle persone si accanisce solo sull’ultimo…

… Fu così che mi ritrovai a tu per tu con un bambino con i riccioli castani, le lentiggini e gli occhi come due virgolette
Come ti chiami? – Mi chiese senza quella esitazione che i bambini a volte hanno verso uno sconosciuto. Lui saltava i preliminari nella relazione, era assetato di sguardi e parole, di contatto.
Zoe- risposi, e tu?
Arturo.
E che cosa ci fai qua?
E tu? – Ribadì lui secco e senza rispondere. Mi resi conto della piccola gaffe: la storia della sua sofferenza era già narrata in dettaglio dal suo corpicino esile, dall’ingresso venoso, dalle ecchimosi sulla pelle, dalle occhiaie e dal luogo in cui ci stavamo incontrando: un ospedale pediatrico oncologico. Ci guardammo negli occhi e rimanemmo in silenzio. Poi, con un accenno di sorriso lui mostrò compassione per le mie parole distratte; io imparai ad essere più attenta e delicata.

Credo che i dubbi a volte ci servano a tergiversare, a prendere un po’ di fiato prima di affrontare la realtà, scegliere la direzione e agire: cosa potevo fare io per alleviare le sofferenze di quel bambino? E soprattutto: perché tanta sofferenza in un bambino? Quelle domande avrebbero potuto diventare una cuccia calda in cui stordirmi e ristagnare oppure accendere il fuoco per cercare un senso, spingermi oltre l’inverosimile, toccare il cuore della questione e andarci fino in fondo. Fu così che tra un dolce grecaletto di primavera e un suadente scirocco d’estate, la brace restava ardente e io ricamavo quella trama di senso che intrecciava la mia vita a quella di Arturo …

Ci vedevamo quasi tutti i giorni tranne il week-end. Ormai conoscevo i turni delle terapie e le sue abitudini. La mattina, quando il tono del corpo e dello spirito lo permettevano, tra il giro dell’équipe medica e il pranzo, gli piaceva rifare lui il “giro” e andare a trovare tutti i bambini e le bambine nelle altre stanze. Con ciascuno era capace di improvvisare un gioco, imitava brillantemente i medici, inventandosi cure particolari per ogni amico. Per esempio, ad Einstein, così aveva soprannominato un bambino con la testa molto grande a causa di un versamento nel cervello, gli disse:

Tu hai una gran folla di idee in testa e molta fantasia. Sono convinto che se tutta la tua immaginazione potesse esprimersi, la tua testa si sgonfierebbe come un palloncino… Einstein, che poi si chiamava Alberto, le prime volte rimase ammutolito, ma poi cominciò a stare al gioco, a inventare storie geniali: la testa non si sgonfiava, ma lui si divertiva…

Arturo si poteva permettere di essere così diretto, di nominare il tabù della malattia che gli adulti tacevano, perché come diceva agli altri bambini, “noi siamo tutti nella stessa barca”!

La curiosità era la forma che prendeva il suo attaccamento al mondo e in uno di quei momenti che lo costringevano a letto, gli raccontai del mio passato in mezzo al mare. I suoi occhi si sgranarono in due enormi lune piene, fece un piccolo balzo in avanti scostando la schiena dai cuscini, sporgendosi verso me e le mie avventure di venti, di vele, di onde, di oceani, di tramonti, di notti di stelle e di luna, di gabbiani e di delfini… Arturo mi interrompeva continuamente, il sapore del mare e dell’avventura lo eccitava, poi, dopo un pò si placava, come se quel movimento lo stancasse, le sue palpebre seguivano il moto ondoso delle mie avventure e si addormentava.

Allora mi consolavo immaginando che quel profumo di libertà potesse almeno ispirare i suoi sogni.

Elsa Tranchesi 2016

Purtroppo l’autunno non fu una buona stagione per lui: i dolori aumentarono e la qualità della vita peggiorò. Spesso si stancava e anche la curiosità cedette il passo all’inerzia. Un giorno, la madre, Sofia, mi chiama: è esausta, si sente sola, la sorella vive lontano, sua madre è troppo anziana per sostenerla e con il padre di Arturo non ha più contatti. Lei è stata tutto per Arturo e Arturo tutto per lei, ma, oggi, si rende conto che ha creato il vuoto intorno a loro, e, da quando è comparsa la malattia, è diventato un vuoto insostenibile. Sofia era in preda alla rabbia e alla disperazione. Non riusciva a vedere nessuno spiraglio: non sopportava più vederlo soffrire, ma si era tenacemente opposta ad inserire nel piano terapeutico la terapia per il dolore e aveva rifiutato la consulenza per le cure palliative proposta dal primario, anche se questo avrebbe potuto alleviare le crisi del figlio e aumentare il lasso temporale tra l’una e l’altra. La percepiva come una sconfitta, una via senza ritorno … Era esausta, ma, non riusciva a mollare il controllo e, non si rendeva conto che cercando di sostituirsi a tutti, non permetteva la costruzione di una rete necessaria a sostenere Arturo in questo momento così delicato. Ascoltando Sofia, realizzo lo stesso comune e innocente desiderio: che Arturo possa vivere più tempo e nel migliore modo possibile. Lo volevo con tutta me stessa ed anche lei, questo ci univa profondamente! Ed è da lì, da quel tonfo che mi scuote, che, senza pensarci troppo le dico: L'ingratitudine è la base da smantellare per vincere (2). Cosa? La sorpresa, la meraviglia, i punti interrogativi sul volto di Sofia. C’è qualcuno verso cui sei grata in questa storia? le chiedo. Sicuramente i medici; mi hanno aiutata tantissimo, sin dall’inizio … e non pensi che potresti mostrar loro la tua gratitudine affidandoti un po’ di più, considerando alcuni suggerimenti che ti vengono forniti per non farti sentire sola ad affrontare tutto questo? Colsi nei suoi occhi una luce. Sofia aveva cominciato ad uscire dall’isolamento: la sostenni a prendere la decisione per richiedere la consulenza per le cure palliative.

Arrivò una dottoressa che ad Arturo piacque molto e che subito soprannominò la fata turchina. Per più di un’ora rimase con lui. Poi, Sofia e la dottoressa uscirono insieme, era chiaro che si era creato una relazione di fiducia e complicità. Allora? chiese Sofia alla dottoressa, e allora Sofia, il dolore è un prezioso indizio, spesso negato in tempi di anestesia emotiva. Per riconoscere e comunicare il dolore senza provare paura o imbarazzo ci vuole coscienza, ci vuole l’anima. Il dolore non è altro che la sorpresa di non conoscerci (3) : bisogna accettare di essere umili di fronte al mistero e con pazienza porsi in ascolto. Sofia cominciò a piangere, ma non era un pianto disperato. Era un pianto liberatorio e di consapevolezza. Le parole della dottoressa l’avevano fatta finalmente entrare in contatto con il proprio dolore, ne preparavano l’accettazione.

Quando rientrò da Arturo con gli occhi velati, lui capì, capiva tutto. Sorrise con uno sguardo acuto e poi subito dopo sfidandola ad un’altra partita a scacchi le ricordò che la lotta era fatta di tante battaglie e che l’unico modo per affrontarle, una ad una, giorno dopo giorno era, stare nel presente, insieme.

Li guardai e pensai a mia madre: a volte è più facile aiutare chi non ci appartiene e vederci chiaro nell’altrui vita piuttosto che nella propria. Molto spesso aiutiamo l’altro perché non siamo in grado di farlo con noi stessi … Presto sarei tornata a casa arricchita di questa esperienza e ne avrei fatto tesoro, pensai.

Napoli, 14 novembre 2016

Citazioni: 1-2 Gianna Mazzini Il nome della nostra bellezza in Buddismo e Società n.155 - novembre dicembre 2012;  3 Cit. Alda Merini

Bibliografia
Alessandra Fornasiero, Gioire insieme agli altri in Buddismo e Società n.141 - luglio agosto 2010 Speciale
Gianni Grassi, Comunicare (anche il dolore) sarà difficile, ma è terapeutico in www.giannigrassi.it
E. Kubler Ross, La morte e il morire, La cittadella 1976.
E. E. Schmitt, Oscar e la dama in rosa, Bur 2005.
Gianna Mazzini, Il nome della nostra bellezza in Buddismo e Società n.155 - novembre dicembre 2012
Iona Heath, Modi di morire, Bollati Boringhieri 2008
Sclavi M. “Arte di ascoltare e mondi possibili”. Milano: B. Mondadori 2003; “Ascolto attivo e seconda modernità” in Rivista di Psicologia Analitica n. 71/2005 (“Risonanze all’ascolto”).
Good B. J. “Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico – paziente”. Torino: Edizioni di Comunità 1999. Demetrio D. “Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé”. Milano: Raffaello Cortina 1995.