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Diritti negati

di Maria Teresa Luongo.

Siamo reduci da una settimana in cui ha spopolato su ogni tipo di social network un, invero assillante, hashtag: il #10YEARSCHALLANGE.

Cosa è cambiato in questi dieci anni? Tra selfie scattati prima dell’avvento dei più improbabili photoshop e nostalgici pensieri, non è mancata un’amara riflessione su tutto quello che in questi anni ha infangato il nostro mondo, dai disastri ambientali alle guerre che hanno spaventosamente mutato i profili di troppe città. Ed è sempre un bene, soprattutto in questa particolare settimana di gennaio in cui ricorre il giorno della memoria, fare ammenda di ciò che è successo.

Ma il #10yearschallange che vi propongo guarda al presente, alla situazione delle carceri italiane. Dal dossier “Morire di carcere” del Centro Studi di Ristretti Orizzonti emerge un dato inquietante: dal 2009 al 2019 nelle carceri italiane si sono tolti la vita 566 detenuti. I picchi più alti nel biennio scorso si sono avuti nel periodo estivo: ventuno solo nel periodo tra giugno e agosto 2018; nello stesso periodo, diciannove nell’anno 2017.

Questa situazione dovrebbe farci riflettere quantomeno su due aspetti. Il primo è relativo al sistema giustizia, considerato nel suo complesso, del quale si auspica ogni anno- con ridicola ridondanza- una riforma, anzi “la” riforma: ogni governo, ogni ministro della giustizia (ma anche qualche ministro non della giustizia) non vede l’ora di mettere le mani qua e là sui codici, tagliare dei commi, aggiungere incisi, abrogare articoli. Si deve provare probabilmente una grandissima eccitazione a ripetere quelle rituali parole ormai così familiari al cervello di ognuno di noi: “cambiare il sistema”, “snellire”, “tagliare” i ricorsi, come se il taglio dei ricorsi potesse far piacere a chi vuole giustizia.

Ma il problema non è nei testi scritti- in qualche caso sì, certamente- ma nell’applicazione che se ne fa. E qui veniamo alla seconda riflessione e al secondo aspetto che questa coinvolge: la Costituzione, quella famosa carta che il gennaio dell’anno scorso ha festeggiato i suoi settant’anni. In particolare quel suo articolo 27 che enuncia due principi fondamentali: che l’imputato non è considerato colpevole sino a condanna definitiva e che la pena non deve affliggere, non deve tormentare chi la sconta portandolo al suicidio, ma deve rieducare. Gli istituti penitenziari non dovrebbero essere luoghi infernali, non dovrebbero aumentare la sofferenza che già di per sé discende per il detenuto dall’essere privato della libertà personale. Ma soprattutto le carceri non dovrebbero diventare luoghi di anticipazione della pena, e sembra che sia proprio questo aspetto a sfuggire alla pancia dei cittadini che di fronte a certi crimini vorrebbero subito l’incarcerazione anche del solo indagato.

Cosa è cambiato in questi anni? Molto in verità, soprattutto dopo la sentenza “pilota” Torreggiani con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Cedu, che sancisce il divieto di tortura e di pene e trattamenti inumani e degradanti. La Corte in quell’occasione censurò l’Italia per le condizioni disastrose in cui sono costretti i detenuti a causa del sovraffollamento e constatò un dato allarmante: gran parte della popolazione carceraria è rappresentata da soggetti ancora in attesa di giudizio, dunque innocenti fino a condanna definitiva.

Svariati sono stati, in verità già prima della Torreggiani, gli interventi volti a risolvere il problema del sovraffollamento degli istituti di pena (per intenderci non è solo un problema di strutture fisiche). Perché non è normale, non è umano, non è morale, che un detenuto sia costretto a condividere una cella stretta con altre sei persone, che abbia per sé solo due metri di spazio a disposizione, che non abbia accesso alla doccia, all’acqua calda, alla luce naturale del sole, che egli senta come unica soluzione alle sue sofferenze il richiamo di un lenzuolo stretto al collo. E benché oggi la Costituzione sia trattata come un inutile fantoccio, benché i diritti siano oggi troppo spesso negati, per quel che può valere tutto questo non è nemmeno costituzionale.

Si sta facendo qualcosa ma non basta e probabilmente nemmeno la riforma della giustizia che arriverà risolverà il problema. Ma qualcosa si può fare, possibilmente prima del prossimo #10YEARSCHALLANGE 2019/2029: farsi guidare di più da quell’articolo 27 e da quella Carta che è il pilastro del nostro diritto.

Napoli, 27 gennaio 2019