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Uno sguardo alle nuove correnti di pensiero del Novecento
di Elvira Brunetti

Strutturalismo, Semiologia sembrano parole oscure, incomprensibili, difficili, eppure intriganti.

Tempo fa m’interessai a Claude Levi Strauss perché il famoso antropologo francese intraprese lunghi viaggi di studio e di osservazione dei costumi e dei miti delle popolazioni amazzoniche. Alla fine di un’attenta analisi affermò che i miti hanno una loro struttura che non è diversa da quella dei miti greci. Fu allora che sorridendo mi dissi: “I miti si pensano tra loro”. La forza seduttiva di questo nuovo metodo d’indagine quasi scientifico mi colpì. Non è il singolo elemento ma le relazioni tra le parti di un sistema che ci permettono una conoscenza migliore.

Poi venne l’attrazione per Michel Foucault, omosessuale deceduto per l’Aids, grande figura di intellettuale ed eminente filosofo. Ha indagato e studiato le origini del Sapere e del Potere, spingendo sulla scia di Nietzsche a riconoscere la fine dell’Umanesimo; l’uomo non è più soggetto, né oggetto di studio. E’ l’analisi delle forze che agiscono sul singolo individuo a determinarne la vita futura, vedi le strutture di controllo della società fino ai sistemi di coercizione dei manicomi, delle carceri. Una delle ultime lezioni di Foucault dalla cattedra del College de France prima di morire riguardò ancora Socrate e il sollecito dell’invito di quest’ultimo al Sapere di noi stessi. Socrate disse:”Conosci te stesso”. Nietzsche scrisse: “Diventa quello che sei”.Foucault reitera con veemenza: “La cura di sé”.

Avanzando poi nella ricerca degli attori importanti del Novecento, solidali con questa nuova “filosofia” m’imbattei su Jacques Lacan. Pietra miliare della psicanalisi freudiana. Studioso della mente umana, mutuando dallo svizzero Fernand de Saussure, la teoria che la lingua è l’insieme di un significante e un significato, affermò che l’inconscio pure è un linguaggio strutturale. La parola è il solo strumento che con la sua rete di significanti può restituire alla coscienza la mancanza di quello che la nostra mente per proteggerci illo tempore ha severamente censurato.
Negli anni cinquanta e sessanta questa nuova corrente di pensiero, che produceva una reinterpretazione delle vecchie discipline imperversava in Francia, dove fece diversi accoliti, mentre in Italia arrivavano solo i riflessi.

Ma qui da noi, grazie ad un solo nome Umberto Eco, venuto a mancare solo da poco, la Semiologia, come disciplina a sé stante, ha avuto la sua nomea.
Ricordo, quando Umberto Eco venne a Napoli con il gruppo dei Bibliofili per una conferenza. Fu accolto da Mauro Giancaspro, allora direttore della Biblioteca Nazionale con grandi onori nell’aula magna, presenti mille persone. Incominciò a parlare veloce e con quel suo accento tipicamente piemontese, non capii granché del suo intervento. Ma una cosa ripeteva spesso: ” Tutto è segno”.

Allora non ero particolarmente interessata al fenomeno, come sarà successivamente.

Per tornare a Umberto Eco nel suo capolavoro “Il Nome della Rosa “, si notano accanto agli indizi del romanzo thriller tutta una serie di rinvii continui cioè di segni. Interessante la postilla finale con riferimento al titolo del libro, dal significato non proprio intelligibile, in italiano dal latino suona così :”La rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo solo nudi nomi”. E’ stato un grande intellettuale, uno straordinario uomo di pensiero italiano, contraltare ostico di quelli francesi suoi contemporanei e ce n’erano all’epoca!

Basti pensare a Roland Barthes, vera star della cultura europea, critico attento della società di oggi, dei mezzi di comunicazione, ridicolizzò i miti borghesi. Il semiologo d’oltralpe era alla ricerca continua e affannosa dell’errore nel linguaggio e come Eco quindi ne denunciava la crisi. Di Eco si ricordi il duro attacco alla mediocrità della televisione con la sua “Fenomenologia di Mike Bongiorno”.

Forse tuttavia dovrei fare un distinguo fra gli esponenti strutturalisti francesi da me menzionati. Io credo che la fama di Claude Levi Strauss sia stata un poco trascurata rispetto al riverbero di Jacques Lacan e Roland Barthes. L’importanza e la moda della psicoanalisi negli ultimi decenni del Novecento, specialmente negli States, dove tutti avevano e forse hanno ancora un “coach”, così come il protagonismo a livello mediatico del Deus ex machina della attualissima semiologia del secondo, hanno fatto sì che entrambi fossero favoriti dalla notorietà. Mentre l’antropologia come scienza non ha mai goduto della stessa fortuna divulgativa. Eppure il lavoro intenso di Claude Levi Strauss, sottolineo, quasi certosino sui numerosi appunti di viaggio catalogati per poi giungere alle notevoli conclusioni attribuibili solo alla differenza tra Natura e Civiltà (“Il crudo e Il cotto”), poiché in fin dei conti la struttura umana è sempre una sola. Le credenze dell’indigeno brasiliano di oggi sono le stesse di altre civiltà. Si tratta solo di decifrarne il linguaggio.
Lacan ha approfondito l’opera mastodontica di Freud semplificando il lavoro successivo di tutta la clinica psicoanalitica. E non è poco. Oggi molti psicoanalisti sono lacaniani.

L’ultimo sguardo è alla letteratura.

Tra gli scrittori italiani che sono stati influenzati dal “segno”, vorrei ricordare Italo Calvino, una vita avventurosa. Nasce all’Avana e la mamma lo chiama Italo in memoria della sua origine; sposa un’argentina. Trascorre più di dieci anni a Parigi negli anni Settanta e viene in contatto con gli intellettuali dell’epoca. Scrive la sua opera emblematica: “Le città invisibili”, tradotta in una trentina di lingue, l’ultima nel 2010 in bengalese. E’ il racconto di un dialogo tra Marco Polo e l’imperatore dei Tartari Kublai Kan. Il veneziano narra di aver visitato tutte le città del suo vasto impero. Esse sono 55 dai nomi tutti femminili, descritte in modo fiabesco con grande dovizia di particolari. Sono città fantasiose, città del passato ricordate e città del futuro immaginate. Un poco labirinto, un poco piacere edonistico dei sensi. Un viaggio affascinante attraverso l’incertezza. Il libro è strutturato come un gioco di parole tra il lettore e l’autore.

Dopo un simile excursus vorrei motivare la ragione di questo mio articolo.

E’ vero che a livello di lettura mi sono spesso interessata degli autori menzionati. Ma l’input è stata la mia visita guidata alla mostra su Joan Mirò, avvenuta ultimamente a Napoli. Il titolo era “Mirò il linguaggio dei segni”. In tanti anni di amore per la sua arte, dato il legame con i Surrealisti, miei compagni di pensiero intriganti, non avevo mai fatto tale associazione mentale. Scattò la molla dell’interesse per la linguistica e verificai che il segno sviluppa immagini successive del tutto personali. Noi non sappiamo cosa significassero quei segni per Mirò, ma il pittore catalano ha voluto comunicare con noi attraverso le sue opere. Quindi quei significanti per ognuno di noi avranno il loro significato. Questa è la svolta dell’arte moderna: il coinvolgimento personale. È L’osservatore che crea l’arte. L’artista sollecita solo. L’arte è vita, ma soprattutto libertà, perciò affascina. Sulle pareti delle antiche grotte rupestri nasce il segno, come origine del processo di comunicazione fino ad oggi.

Napoli 8 settembre 2020