Sperare ancora
Sperare ancora
di Anna Maria Bianchi
Quando, in una delle telefonate che periodicamente intercorrono con Luigi Antonio Gambuti nel segno di un’amicizia nata nella comune appartenenza all’Associazione Italiana Maestri Cattolici, mi sono sentita dire che mi avrebbe inviato un suo lavoro, non mi sarei certo aspettata le circa seicento pagine di Itinerari. C’è voluto tempo, ma le ho lette tutte e più di qualcuna riletta, trovandoci ogni volta uno stimolo nuovo, un diverso aggancio all’attualità.
Luigi Antonio Gambuti
Non è facile condensare in alcune parole-chiave articoli, riflessioni, considerazioni che coprono l’arco temporale dal gennaio 2005 al giugno 2018, ma sicuramente la prima che si affaccia è responsabilità. Ritorna a ogni piè sospinto, direttamente e indirettamente, in contesti diversificati.
L’autore la connette a identità, coerenza e partecipazione, e la pone in rapporto biunivoco con libertà, dal cui esercizio pieno deriva e di cui connota l’autenticità. Scuola, politica, vita civile quotidiana, la stessa informazione sono chiamate, ciascuna nel proprio specifico, all’esercizio di responsabilità. Sì, anche l’informazione, richiamo tanto più pregnante in quanto viene da un giornalista pubblicista, che ben ne conosce dall’interno i meccanismi. Le vicende elettorali a vari livelli territoriali occupano molte delle pagine, ma in buona sostanza tutto è ricondotto alla responsabilità, per gli eletti quella di individuare gli strumenti e le azioni più idonee a perseguire il bene comune e per gli elettori quella di esercitare discernimento, per scegliere uomini e donne capaci di perseguirlo. Affermazione alla quale si annodano domande profonde di senso: quale bussola per il discernimento? Certo, i principi della Dottrina Sociale della Chiesa sono chiari, ma forse non sempre noti ed esercitati, almeno stando alle vicende della città di Napoli, della sua provincia, della Campania, della vita del PD al quale Gambuti non fa mistero di appartenere e di guardare con speranza e delusione insieme, non risparmiando rimbrotti, acerbi e pungenti anche quando ammantati di signorile ironia, soprattutto per l’incapacità cronica di imparare dai propri errori. Forse, aggiungerei, perché vanno prima riconosciuti, chiamati per nome, ammessi, e questo non è mai semplice.
La seconda parola è un binomio: educazione e scuola. Più che parole, sono un tratto distintivo della persona Gambuti, il maestro, l’uomo di scuola che rivendica con orgoglio l’essere stato Direttore Didattico, cosa abbastanza diversa dall’attuale Dirigente Scolastico. Dal taglio, dalla prospettiva con cui i vari argomenti sono affrontati, emerge il professionista di scuola, l’educatore, che anche parlando di “identità imbecille” finisce per interrogarsi su come sia possibile seminare la pedagogia della fiducia.
Numerosi articoli si addentrano nella proposta di riforma Gelmini-Tremonti (anzi, per la precisione Tremonti-Gelmini, ad indicarne subito la connotazione essenziale: i tagli scriteriati) e altre pagine sono dedicate a quello che Gambuti definisce il ritorno indietro. Emblematico, per me, è “C’era una volta la scuola”, anche per l’assonanza con il ciclo western di Sergio Leone, ma soprattutto per il riecheggiare don Milani: con i troppi bocciati è la scuola che boccia se stessa, perché non si chiede le ragioni profonde del suo fallimento. Andare alle radici, a un rapporto distorto istituzione-istituente, è l’equivalente del ricercare le cause strutturali di una situazione negativa ed aggredirle come unica strada per risolvere un problema, altrimenti si curano solo i sintomi e la malattia persiste. Evangelii Gaudium e Laudato Si’ lo esprimeranno in modo compiuto. Vale anche per lo sfascio ambientale che l’uomo ha prodotto violentando la natura. Prendere coscienza di qualcosa, provarne vergogna all’occorrenza, è un apprendimento che può determinare un mutamento di mentalità. E a cos’altro serve l’educazione se non a sollecitare un’inversione di mentalità, una conversione? Qui si innesta il valore della memoria come strumento per capire, ripercorrendo il passato recente e meno recente, che le risposte stesse alle emergenze ricorrenti valgono poco se nel formularle non c’è un senso, un significato culturale. È il metodo, il rimedio suggerito anche per la fragile Europa: ritornare alle radici umanistiche, recuperare il tasso di umanità perduta. Non sentite risuonare il Convegno ecclesiale di Firenze con le vie per il nuovo umanesimo?
Coscienza è un’altra parola chiave che può consentire una lettura/interpretazione globale degli scritti. L’esigenza di una coraggiosa presa di coscienza per ritrovare l’orgoglio di essere cittadini di uno Stato democratico, costituzionalmente fondato e garantito, è resa plasticamente con la suggestiva immagine del fermarsi perché la coscienza ci raggiunga. Fermarsi, direi anzi saper sostare. Sostare è più che fermarsi. È far tacere le tante voci esterne per ascoltare la propria voce interiore. Graficamente scomposto (so-stare), rimanda alla capacità di stare pienamente dentro una certa realtà in un momento preciso, alla capacità e volontà di “abitare” il proprio territorio non da turista, di starci e non solo esserci. In questo senso sostare è declinazione di amare.
Gambuti guarda con amore a Napoli, ma allarga a tutta la società italiana e non mancano accenni a società liquida, pensiero debole, vizio della dossierizzazione… Nel complesso una forte condanna civile per un degrado che dovrebbe responsabilizzare tutti. Dovrebbe, ma ancora non accade. Rianimare le coscienze è compito arduo, operazione che richiede tempi lunghi e impegni istituzionali severi e coraggiosi, ma è a suo avviso la sola via che può rendere concreto il “nessuno si salva da solo”, la visione politica di don Milani perché la povertà non sia disperazione. Proprio il contrario dell’inseguire l’emergenza o della politica del vabbuò che sembra farla da padrone.
Constatare che non accade gli fa temere che anche la speranza possa morire, ma non lo porta a gettare la spugna. Gambuti coglie sì il rischio dell’assuefazione, dell’essere come anestetizzati davanti al malcostume dilagante (“e noi stiamo a guardare” è una frase terribile, specie se la riportiamo al momento in cui risuona nei Vangeli); annota amaramente che politica, riconoscenza, dignità, amore non sono più compagni di viaggio e sembrano ormai far parte della nutrita schiera delle parole abusate e consumate, parole “stanche” per dirla con Tonino Palmese, “gusci vuoti” per richiamare il teologo ortodosso Yannaras; ma di fronte alla precisa domanda se crede ancora nella speranza, la risposta è positiva e il rinnovato interesse per le tradizioni è occasione per leggersi dentro, riscoprire un’identità, mettere a fuoco come viviamo il nostro “essere” persone e cittadini.
Non posso fare a meno di ricordare il Silone di Severina.
Speranza è l’ultima parola che raccolgo. A primo impatto sembra difficile scorgerne il bagliore. Pagina dopo pagina, anno dopo anno, si rincorrono gli stessi problemi e la medesima altalena di illusioni, speranze, delusioni. Eppure Gambuti continua a immaginare politici e amministratori come sacerdoti laici al servizio dei bisogni degli amministrati, capaci di disegnare un masterplan per il mezzogiorno in grado di placare la fame antica di lavoro e di strutture. Fortissima la delusione per le varie vicende elettorali del 2016 e soprattutto dopo il Referendum istituzionale per le riforme, quando gli sembra che si siano persi e distrutti anche il dovere della coerenza e l’onestà etica e intellettuale. Anche per la scuola la chiamata diretta dei docenti da parte del Dirigente scolastico lo porta a chiedersi se persino in questo contesto si producono scarti.
Una luce di speranza si accende nelle parole del cardinale Sepe ai giovani, invitati a fare di Napoli la ragione dei loro sogni. La realtà quotidiana, però, gli appare connotata da segni che prospettano seri rischi per la società democratica. “Tanto il sole sorge ancora e la luna tramonta come sempre e se ne fotte delle miserie che su questa scorza di universo la fanno da padrone” sono parole del giugno 2018 che hanno il chiaro sapore del pessimismo leopardiano, ma l’invito a fermare il cammino per darsi il tempo di ri-pensare è come i fiori che crescono nelle crepe dei muri e i fili d’erba che spuntano in quelle dell’asfalto. Ri-pensare per ri-partire.
E adesso, tre anni dopo? Tre anni non sono molti, ma si sono succeduti eventi, a partire dalla pandemia, che stanno cambiando il volto del mondo e la sostanza delle relazioni, ma forse ancora non incidono sulla politica nel senso che Gambuti auspica: vicinanza al popolo, autentica democrazia, bene comune. Vediamo gruppi che nascono e che si sciolgono, ora amici ed ora nemici, in un balletto che ricorda Estasia ed Eurasia dell’orwelliano 1984.
Sarebbe interessante sapere come Luigi Antonio Gambuti ha letto e chiosato questo triennio. Ce ne farà dono prossimamente?
Napoli, 13 luglio 2021