Saremo giudicati sull’amore
Saremo giudicati sull’amore
di frate Valentino Parente
Sarà l’amore cioè a dire se la vita
che abbiamo vissuto sarà stata o no una vita piena.
Se la nostra vita sarà stata piena di amore,
oppure solo piena di pura osservanza
di regole, ma senza cuore.
S. Giovanni della Croce
XXXIII domenica del tempo ordinario Anno A
15 novembre 2020 – san Felice da Nola
Prima lettura (Pr 31,10-13.19-20.30-31)
Seconda lettura (1Ts 5,1-6)
Vangelo (Mt 25,14-30)
L’evangelista Matteo, al grande discorso escatologico, cioè il discorso sulla fine dei tempi, aggiunge tre parabole; la prima l’abbiamo ascoltata domenica scorsa, quella delle dieci vergini.
La seconda è quella che leggiamo in questa XXXIII domenica del tempo ordinario, ed è la parabola dei talenti.
La terza l’ascolteremo domenica prossima, ultima domenica del tempo ordinario, ed è la parabola sul giudizio universale.
Al centro, la parabola dei talenti, che mette in evidenza il compito di amministrare, di far fruttificare un patrimonio che ci viene affidato.
Tre servitori sono chiamati dal loro padrone come amministratori dei suoi beni.
Ad uno affida cinque talenti, ad un altro due e al terzo ne affida uno.
In tutti egli ha messo la sua fiducia senza limiti, affidando loro i suoi beni.
Spetta ora ai servi non tradire la grande fiducia del padrone.
Quando ritorna e fa i conti, i primi due gli consegnano un patrimonio raddoppiato, il terzo non ha nemmeno usato ciò che gli è stato dato.
Anzitutto, la parola talento non vuol dire quello che comunemente intendiamo, cioè una qualità, una dote, una capacità umana.
La parola talento deriva dal greco tàlanton e significa piatto della bilancia, peso, moneta legale. Come moneta il suo valore variava secondo i tempi e i luoghi.
Un talento, ad Atene, corrispondeva a più di venti chili d’argento.
Al tempo di Gesù, in Palestina, un talento equivaleva a 10.000 denari e considerando che un denaro doveva essere la paga giornaliera di un operaio (come abbiamo visto nella parabola dei lavoratori della vigna, in Mt 20,1-16), possiamo
immaginare quanto fosse importante la cifra che il padrone della parabola affida ai suoi servi.
Un vero patrimonio.
Il primo e il secondo vanno subito a trafficarli, e quando il Signore ritorna e fa i conti, restituiscono il doppio.
Chi ha ricevuto tanto, ha raddoppiato, chi ha ricevuto meno ha raddoppiato lo stesso.
Sono stati onesti, buoni, efficienti entrambi, nonostante la differenza.
Il terzo servo, invece, è un uomo pigro, pauroso, bloccato in sé stesso.
Ha, del suo padrone, un’idea molto negativa.
E quando giunge il suo turno, restituendo il talento ricevuto, giustifica così la sua inoperosità: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; ecco ciò che è tuo”.
In una simile concezione di Dio non c’è posto per l’amore, la fiducia, ma soltanto per la scrupolosa osservanza della legge.
Il servo non intende correre rischi, e mette al sicuro il denaro, credendosi giusto allorché può ridare al suo signore quanto ha ricevuto.
Infatti lo sotterra per poi tirarlo fuori semplicemente per restituirlo.
Non ha capito che, affidandogli il talento, il suo padrone vuole fare di lui un amico; che quel talento è un dono di comunione, un atto di fiducia.
Su tutto invece incombe la paura del castigo, e il dono, da opportunità, si trasforma in incubo.
I primi due servitori sono l’immagine dell’operosità e dell’intraprendenza. Il terzo invece è immagine della pigrizia e della inoperosità.
Dio, da parte sua, sorprende sempre: dai servi non chiede indietro i talenti affidati, ma li sorprende con un riconoscimento straordinario, raddoppiando la posta, moltiplicando la gioia: “sei stato fedele nel poco ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Il giudizio non sarà sulla quantità del guadagno, ma sulla qualità del servizio.
Al tramonto della vita, diceva S. Giovanni della Croce, saremo giudicati sull’amore.
Sarà l’amore cioè a dire se la vita che abbiamo vissuto sarà stata o no una vita piena.
Se la nostra vita sarà stata piena di amore, oppure solo piena di pura osservanza di regole, ma senza cuore.
E mentre per i primi due servi la risposta del padrone è di elogio e di inaspettata ricompensa, non così per il terzo servo, definito “malvagio e pigro” e “servo inutile”, ed essendo non-utile, la sua sorte è quella di essere “gettato fuori nelle tenebre”.
Cosa vuol dire Gesù con questa parabola? Che cosa si nasconde dietro questo patrimonio affidato ai servi?
Nel nostro linguaggio abituale, la parola talento equivale a capacità, abilità, ma, di fatto, i talenti che il Signore affida ai suoi servi, secondo un’antica interpretazione dei Padri della Chiesa, non sono le doti naturali ma il patrimonio evangelico, la Scrittura, la ricchezza della tradizione cristiana che ci è stata tramandata, i sacramenti e tutti gli aiuti che il Signore ci ha fornito perché li utilizzassimo per averne un vantaggio.
In una sola parola, i talenti sono il “deposito della fede” cioè la nostra fede.
La parabola ci fa comprendere la vera natura del rapporto che corre tra Dio e l’uomo.
Un rapporto di amore che è esattamente l’opposto di quel timore servile che ama Dio solo con una precisa osservanza dei suoi comandamenti.
Gesù invece si muove nella prospettiva dell’amore, che è senza calcoli e senza paura.
L’amore infatti non ha limiti e non ha paura di correre rischi, perché nell’amore non c’è timore. E lui stesso ce ne ha dato ampia testimonianza.
“Ho avuto paura di te”. questo non è il timor di Dio; è una paura servile.
Sant’Agostino usa l’immagine molto bella della sposa: il timor di Dio è come l’amore di una sposa.
Una sposa fedele, se il marito è lontano, aspetta ardentemente che venga e non vede l’ora che arrivi. Se la sposa è infedele, ha paura che torni, perché potrebbe scoprire la sua infedeltà.
Il timor di Dio è l’atteggiamento filiale di chi rispetta e ama il padre come autorità.
È la consapevolezza di chi ha ricevuto un dono grande da Dio.
Il primo dono è il suo amore gratuito. Dinanzi a ogni dono, si richiede sempre un duplice atteggiamento: prima di tutto la disponibilità all’accoglienza e poi la gratitudine per quanto ricevuto.
Ma la consapevolezza dell’amore che Dio ha per me, non mi esonera dalle mie responsabilità, non mi autorizza a comportarmi male, o rimanere inerte, solo perché so che Dio mi vuole bene.
Quando si ama una persona, non ci si comporta male, al contrario, si fa di tutto per rendere felice quella persona.
E questo vale anche nel rapporto con Dio. Se è vero che gli voglio bene, mi sforzo di essergli gradito, osservando la sua Parola, e non per paura di un castigo, ma semplicemente per amore.
Perché andiamo a Messa? Perché è un obbligo? Perché abbiamo paura di essere puniti? O per amore?
Se uno va a Messa solo per obbligo, per abitudine, arriva tardi e non vede l’ora che tutto finisca.
Non ascolta niente, sta lì come un sacco di patate.
Esserci o non esserci è la stessa cosa. Ha fatto il suo dovere.
Ci è andato sempre, ma è come se non ci fosse andato mai.
Nella sua vita non è mai cambiato niente.
Se uno ci va per amore, è un’altra cosa.
Ci va perché desidera incontrare il Signore.
Ci va perché vuole ascoltarlo, perché vuole imparare, vuole dirgli la sua vita, presentargli la sua situazione.
E chiedere al Signore la luce, la forza per vivere bene.
Allora aspettiamo volentieri il Signore che viene, non abbiamo paura del suo ritorno.
E io, sono una sposa fedele che aspetta il Signore con gioia, o una sposa infedele, che ha paura del suo ritorno?
Proviamo a pensarci: il mio timor di Dio ha paura del Signore perché mi disturba o desidera il Signore perché è l’incontro della vita che dà senso e pienezza alla mia vita?
Nola, 13 novembre 2020