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MISERICORDIA ET MISERA. Salvare l’anno santo della misericordia.
-don Giulio Cirignano – biblista

Molte le parole significative, molti i gesti preziosi di Papa Francesco di questi ultimi mesi, volti anch’essi come tutti gli altri da lui compiuti in questi anni per far compiere al Popolo di Dio il difficile cammino verso le domande ed i bisogni dell’uomo. Fra tutti ne scelgo due: la lettera apostolica a conclusione dell’anno straordinario della misericordia intitolata “Misericordia et misera”, e la preghiera formulata alla conclusione della via crucis del venerdì santo. Due testi facilmente rintracciabili in internet, due provocazioni da meditare con cura, due felici strumenti di speranza.

Il titolo del primo ha un’apparenza enigmatica. In realtà è bellissimo. Si rifà al commento di Sant’Agostino dell’episodio della peccatrice perdonata che leggiamo nel capitolo ottavo del vangelo di Giovanni. Un incontro dolce e struggente fra la misericordia fatta persona e la povera destinata dalla Legge alla lapidazione: misericordia et misera.

Il secondo non ha titolo ma possiamo indicarlo nelle due parole fondamentali del brano: vergogna e speranza. Vergogna per il nostro peccare, speranza per la Grazia di Dio.

Sulla scorta di questi due interventi è opportuno riflettere. Quanto, nelle nostre parrocchie si lavora per mettersi in sintonia con PapaFrancesco? Quale spazio si cerca di fare a momenti di studio approfonditodelle prospettive di rinnovamento che egli continuamente suggerisce? Si ha il coraggio di mettere in secondo piano abitudinarie pratiche devozionali sostituendole con iniziative di comune apprendimento di più moderne forme di linguaggio religioso? Quanto facciamoci per superare forme stantie di pensiero e azione? Come ci si aiuta a prendere sul serio il Concilio? Quanto nelle nostra frequentazione religiosaè messo in evidenza il rapporto tra Concilio e Vangelo? Ci siamo resi conto di essere, dal punto di vista religioso, profondamente anacronistici? Cinque secoli di scarsa frequentazione della Parola di Dio hanno depositato, purtroppo, nella storia cristiana della vecchia Europa una dura resistenza ad ogni forma di conversione. Certamente non sono mancati e non mancano fermanti di novità, di intensa vita evangelica. Lo Spirito del Signore risorto è sempre all’opera. Ma nel cuore della vecchia cattolica Europa esperienze di rinnovamento, in campo religioso, sono di impressionante minoranza. Il cuore della vecchia cattolica Europa è malato. Il segno più evidente di questa patologia è costituito dalla resistenza ottusa che di frequente notiamo circa le prospettive aperte dal Concilio e riaperte da papa Francesco. Di tale resistenza ne sono vittima i più deboli che si aggirano spaesati o inconsapevoli inaciditi nelle nostre comunità.

Qui conviene fermarsi. Piangerci addosso non serve. Probabilmente la realtà è più complessa di quanto può apparire ad uno sguardo di superficie. La maniera pessimistica di considerare le cose non aiuta come non aiuta l’ottimismo acritico. Allora mettiamoci di gran lena a pensare positivamente. Cosa possiamo guadagnare dalla incalzante lezione sulla misericordia? Cosa deve restare del Giubileo? Quale il lascito permanente dalla collocazione della misericordia al centro della vita credente? Niente deve essere perduto di ciò che è bello. Per questa ragione alcuni punti fermi devono essere fissati.

Al primo posto: dalla misericordia come tema spirituale, bello ma poco concreto, occorre passare ad una vera e propria cultura della misericordia. Il Papa ne parla espressamente al n. 20 del documento citato in inizio “misericordia et misera”: “ Siamo chiamati a far crescere una cultura della misericordia basata sulla riscoperta dell’incontro con gli altri”. La cultura diventa così qualcosa che fa parte di noi, del nostro consueto modo di pensare e parlare. Dalla cultura del divieto e del precetto a quella della misericordia. E’ in gioco una trasformazione radicale. “Ecclesia est semperreformanda” e noi con lei. Solo così possiamo impedire che il cammino giubilare svanisca rapidamente nel ricordo.

Poi, in seconda battuta, la assunzione della categoria della bellezza nella esperienza credente. Occorre spiegarsi. Come? E’ necessaria una operazione tanto semplice quanto concreta. Sostituire il vecchio metro di valutazione della propria salute spirituale, i dieci comandamenti, con un nuovo metro.I comandamenti o le dieci parole sono certamente la sintesi della vita morale. Ridotti all’essenziale sono indicativi dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Niente di più alto, eticamente parlando.Perché allora cambiare? La ragione è semplice: nella loro formulazione le dieci parole rischiano di apparire lontane dalla vita quotidiana delle persone semplici, soprattutto alcune, quali non uccidere, non dire falsa testimonianza, non rubare. Chi ha pratica del sacramento della riconciliazione verifica costantemente l’imbarazzo da parte del penitente nell’esporre la propria condizione di peccato. Spesso si finisce nella solita, sbrigativa, lista della spesa, con eccezione delle colpe relative alla sessualità per le quali vi sono, tuttavia, problemi di altro genere.

Un metro più vicino alla vita quotidiana è quello suggerito dal cristianesimo nascente e che ha proprio all’inizio del primo scritto del Nuovo Testamento, la Prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi la sua formulazione. In pratica, tale metro è costituito dai tre grandi assoluti della sequela: fede, speranza e carità. Fede come accorgersi di Dio presente nella vita, presente per camminare insieme a lui e in lui vedere noi stessi, gli altri, le cose. In virtù di tale visione, non possiamo più essere gli stessi. Speranza come vittoria su ogni forma di pessimismo e scoraggiamento. Carità, agape cristiana, come amore e tenerezza, premura e autodonazione, in somiglianza di Gesù. Riguardo a questi assoluti il discepolo avrà sempre bisogno di perdono. In essi sta la bellezza della vita credente. Mano nella mano con il suo Signore il discepolo sarà condotto da lui verso una vita tersa e felice.

Terzo punto forte: il livello più alto della bellezza che aiuta a vivere è costituito dalla esperienza del perdonoricevuto e donato. Possiamo dirlo: non la bellezza ma l’amore salverà il mondo.

Per concludere, l’ultimo punto da mettere in salvezza è quello di coltivare la coscienza di appartenere ad una comunità in cui promuovere relazioni caratterizzate da solidarietà e amore così da renderla laboratorio permanente di vita bella, palestra di umanità. Per riprendere la preghiera conclusiva della via crucis. Una comunità in cui aiutarsi a non smarrire ‘la vergogna per tutte le immagini di devastazioni, di distruzioni e di naufragio che sono diventate ordinarie nella nostra vita’, insieme alla speranza che i nostri nomi sono incisi nel cuore di Dio, la speranza che la sua fedeltà non si basa sulla nostra.

Firenze, 8  maggio 2017