mar 3 DICEMBRE 2024 ore 18.50
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Mi chiamo Cristiano De André e sono un cantautore
di Emanuela Cristo

Race, milieu, moment. Ovvero: fattore ereditario, ambiente sociale e momento storico. Se tuo padre è uno dei più grandi cantautori mai nati in Italia (anzi, diciamolo pure: nel mondo) e l’aria che hai respirato in famiglia sin da bambino ha il sapore dolce della poesia e l’odore elettrizzante dei più vasti orizzonti musicali… prendere in mano uno strumento e tradurre in versi i pensieri ti sarà parso, a un certo punto, naturale, come mettere un piede davanti all’altro per camminare. Me lo immagino così il fiorire dell’amore per la musica di Cristiano De André, primogenito di colui che non serve neanche nominare.

“Dietro la porta di casa mia
c’è la polvere dei miei ritorni della mia strada
c’è l’ombra della mia anima
sempre attenta ovunque vada”

Il giovane Cristiano De André

Le prime corde di una chitarra sfiorate a undici anni, il Conservatorio Paganini della sua Genova e il violino, il primo singolo a vent’anni con i Tempi Duri. L’esordio solista a ventitré e la buona accoglienza di Bella Più di Me a Sanremo, quel palco sul quale il padre non volle mai metter piede e che lui, invece, calcò più volte, portandosi a casa soddisfazioni, apprezzamenti e premi, come nel ’93 con l’intensa Dietro la Porta.

Già dai primi anni ’80, insieme ai Tempi Duri, accompagnò il padre Fabrizio in alcune tournée. Fino agli ultimi anni, a partire soprattutto dal ’97, per il tour di Anime Salve (“quando ci riabbracciammo come se nulla fosse accaduto”) e per il successivo Mi Innamoravo di Tutto, ormai arrangiatore e polistrumentista di prima fila.

Il milieu di Cristiano gli ha permesso di incrociare il proprio percorso artistico con grandi musicisti, da Finardi a Oliviero Malaspina, Daniele Fossati e molti altri. Certo, i tempi in cui dal cantautore “si pretendevano” l’impegno, l’opinione e la presa di posizione erano ormai passati (e qui veniamo al terzo elemento: il momento storico), ma la sua scrittura si è sempre distinta per una certa delicata ricercatezza, un voler sistematicamente fuggire da vocabolari troppo usuali e poveri, un frequente stimolo a propendere per una parola che non è quella lì proprio davanti a te, ma quella che te la devi andare un po’ a cercare e qualche volta anche un po’ inventare. Musicalmente, di tanto in tanto, si è sentito a proprio agio con sonorità tendenti al rock, o comunque un po’ più dure rispetto, ad esempio, a quelle scelte dal genitore.

“Tito non sei figlio di Dio, ma figlio dell’uomo…” e gli inutili confronti

Troppo spesso e con superficiale disinvoltura, quando si è di fronte ai figli dei cosiddetti “mostri sacri” che decidono di intraprendere la professione del genitore (nel frattempo assurto a intoccabile Dio pagano), la sentenza della “sacra voce del popolo” si abbatte su anni di studio, dedizione e genuina passione, come la più inacidita delle Mara Maionchi, proferendo brutalmente il suo “Per me è NO!”. Perché, è ovvio: se sei il figlio di Gassman meglio che punti alla carriera in magistratura, se tuo padre è Fabrizio De André… non sarai mica scemo? Davvero vuoi metterti a fare il cantautore?

Parliamoci chiaro: Cristiano De André non è Fabrizio De André (nonostante l’impressionante somiglianza nella voce, oltre che nell’aspetto). E francamente non si capisce perché dovrebbe essere altrimenti, né è chiaro il motivo per il quale, un ragazzo nato e cresciuto con la musica fuori e dentro al cuore avrebbe dovuto rinunciare ad essa solo per evitare un inutile confronto con l’enormità della figura paterna. Cristiano de André fa la sua musica, pur amando e conoscendo meglio di chiunque altro quella di suo padre, che pure spesso ha portato a teatro, con risultati straordinari e soprattutto recanti la propria firma, la propria genuina personalità.

È pur vero che gli ci vollero dieci anni, dopo la scomparsa del Faber, per trovare il coraggio e la forza di tornare a suonare in pubblico le sue canzoni: nel 2009 ottenne un grande successo il tour De André canta De André. Dopo altri dieci anni, nel 2019, ha calcato nuovamente i palchi dei teatri d’Italia con il tour Storia di un Impiegato, in una personale rilettura, con note spesso più rock, di un album che vide la luce nel ’73 ma che appare sempre più attuale.

Nel nome del padre

“Un giorno ci diedero un tema in classe, la traccia era “Parla di tuo padre”. E io scrissi: “Mio padre dorme. Punto.”

Nel 2016 Cristiano ha pubblicato La Versione di C., il suo “fare i conti con sé stesso”, che ha significato concludere quel processo di apprendimento, durato una vita intera, dell’unico strumento che, da polistrumentista, ha sempre utilizzato con fatica: il perdono. C’è stato da perdonare un padre, il più delle volte assente fisicamente o con lo spirito: “ti ho visto troppo spesso di spalle, che te ne andavi, oppure di fronte, mentre ti mutavano gli occhi e quasi facevi paura”. Un padre al quale avrebbe voluto dire che ogni volta che erano stati insieme a pescare, aveva sperato di prendere un grosso dentice per avvertire il suo orgoglio (e quanto aveva sentito il bisogno, Fabrizio, di avvertire l’orgoglio di suo padre Giuseppe?).

C’è stato da perdonare sé stesso, in quanto figlio arrabbiato e poi a sua volta padre che “chiudeva le porte e spariva”. Ha dovuto accettare la responsabilità di farsi comprendere da coloro che ha ferito, prima dell’assoluzione. Probabilmente arrivando infine alla stessa paterna conclusione, quella di trovare “ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore”. E dunque “benvenuto sia anche l’errore”.

Cristiano ha parlato al padre, dopo troppi silenzi, in “una lettera che avresti voluto consegnare in mano al destinatario, magari guardandolo negli occhi, o pulendoti le lacrime.” Ha compreso che mettersi di fronte a suo padre è stato osservare sé stesso allo specchio, e che era arrivato il tempo di perdonare entrambi.

“Mi guardo allo specchio e ti rivedo ancora, nel riflesso prego che si aggiungano i volti dei miei figli, con i sorrisi genuini e l’armonia pulsante. Hai presente? Come un tempo.”

Napoli, 23 maggio 2024