L’esame finale non è una sorpresa. Saremo giudicati sull’amore!
L’esame finale non è una sorpresa. Saremo giudicati sull’amore!
di frate Valentino Parente
Il giudizio del Figlio dell’uomo giudica
il tipo di sguardo che abbiamo
sul povero e sul bisognoso.
XXXIV domenica del tempo ordinario Anno A
22 novembre 2020 – Cristo Re
Prima lettura (Ez 34,11-12.15-17)
Seconda lettura (1 Cor 15,20-26.28)
Vangelo (Mt 25,31-46 )
Siamo giunti all’ultima domenica del tempo ordinario; questa domenica coincide con la solennità di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’universo, solennità che segna la fine di un altro anno liturgico. Infatti la settimana prossima, con la prima domenica di Avvento, inizia un nuovo anno liturgico.
La liturgia della Parola, oggi ci parla di Gesù Cristo con due grandi immagini: quella del Pastore e quella del Re.
Immagini che non sono semplicemente due titoli, o due facce della stessa persona.
Tra quei due titoli di Cristo si svolge l’intera storia della salvezza.
Una storia fatta da continue infedeltà e abbandoni da parte dell’uomo e da altrettante prove di amore e di fedeltà da parte di Dio.
Nella prima parte della Liturgia della Parola, (prima lettura e salmo responsoriale), domina l’immagine del Pastore.
Nella seconda parte (seconda lettura e vangelo), quella del Re.
Nell’Antico Testamento, l’immagine di Dio-pastore è caratteristica del profeta Ezechiele, così come quella di Dio-sposo lo è del profeta Osea e quella di Dio-padre lo è del profeta Isaia.
Ed è proprio dal profeta Ezechiele che viene preso il brano della prima lettura, in cui il Signore Dio si presenta come il pastore che radunerà le pecore disperse della casa di Israele.
Israele era stato disperso in esilio, nel grande impero babilonese e il Signore si paragona ad un pastore che raccoglie il suo gregge, lo salva, lo raduna e lo riporta a casa.
“Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare”. Il Signore è il pastore.
E Gesù, presentandosi come il buon pastore che viene a cercare e a prendersi cura delle sue pecore, presenta sé stesso come persona divina.
Praticamente sta dicendo ai suoi ascoltatori: quella promessa che Dio ha fatto al suo popolo attraverso il profeta Ezechiele (v. prima lettura), oggi si sta realizzando: io sono quel pastore che si prende cura del gregge.
Da notare i verbi al futuro della prima lettura e i verbi, ormai tutti al presente, che troviamo sulla bocca di Gesù quando parla di sé come buon pastore (leggi Giovanni 10,1-18).
Con Gesù si realizzano le promesse di Dio al suo popolo.
Nella pagina del Vangelo, abbiamo un cambio di scena: il Pastore lascia il posto al Re giudice che siede «sul trono della sua gloria».
Un cambio di scena già annunciato dal profeta Ezechiele:
“A te, mio gregge, così dice il Signore Dio:
Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri”.
Il pastore che siede sul trono della sua gloria è il Re dell’universo che giudicherà il mondo.
È la terza grande parabola che Gesù ci offre, alla fine dell’ultimo discorso del vangelo secondo Matteo: la parabola sul giudizio universale.
Ricordiamo che il cap. 25 di Matteo presenta tre racconti, strutturati in un modo progressivo.
In essi il tema della separazione è determinante, possiamo notare un certo progresso logico e teologico, relativo alla storia della salvezza: la parabola delle dieci vergini, la parabola dei talenti e l’immagine del giudizio universale.
Riprendiamole nel loro insieme.
Innanzitutto la parabola delle dieci vergini.
Di esse, dice il Vangelo, cinque sono sagge e cinque stolte. Quando arriva lo Sposo le cinque sagge, con le lampade accese, entrano alla festa, mentre le cinque stolte, senza olio nelle loro lampade, restano fuori.
Poi la parabola dei talenti.
Tre ministri che ricevono un patrimonio dal loro padrone. Due lo amministrano bene, facendolo fruttificare, il terzo invece, poiché è pigro, lo nasconde senza farlo fruttificare. I primi due servi entrano “nella gioia del Signore”, mentre il terzo, rimane fuori.
Oggi, l’immagine del giudizio universale.
Anch’essa ci parla di una netta separazione: le pecore stanno dentro all’ovile e le capre restano fuori al freddo. Dentro entrano i benedetti, fuori restano i maledetti.
Queste tre immagini servono all’evangelista per raffigurare tre condizioni differenti.
La parabola delle dieci ragazze, riguarda soprattutto il popolo di Israele, prima di Cristo.
Come delle dieci vergini solo cinque hanno atteso lo Sposo con le lampade accese, e sono entrate alla festa di nozze, così, quando si manifestò il Messia, solo pochi, in Israele, furono pronti e lo riconobbero, ed entrarono con lui alla festa.
Sono coloro che, appartenenti al popolo di Israele, hanno riconosciuto Gesù come Figlio di Dio e lo hanno accolto nella loro vita.
La parabola dei talenti invece, è proprio per noi, cristiani di oggi: siamo noi quei servi ai quali il padrone affida il suo patrimonio.
I talenti sono l’immagine del vangelo, della grazia di Dio che ci è trasmessa nei Sacramenti; è il patrimonio che il Signore ci ha lasciato, perché lo facciamo fruttificare.
È un discorso che vale per tutti i cristiani.
Ma non basta essere battezzati, essere entrati nella Chiesa, per essere salvi.
Alla fine ci sarà il giudizio e il Signore ci chiederà conto di come abbiamo usato il Vangelo, di quali frutti ha dato, nella nostra vita, un tale tesoro.
La parabola di oggi, riguarda tutti gli uomini.
Iin essa Cristo presenta sé stesso come punto di riferimento:
il criterio di giudizio è quello che gli uomini hanno fatto/non fatto a Cristo.
Ho avuto fame, ho avuto sete, ero malato, ero in prigione… È l’immagine del Cristo sofferente che si identifica con i poveri.
E voi mi avete assistito / non mi avete assistito…
Tutti, sia gli uni che gli altri, reagiscono dicendo: “Signore quando ti abbiamo visto affamato, assetato, prigioniero, e ti abbiamo/non ti abbiamo assistito?”.
Questi sono tutti coloro che non hanno mai conosciuto il Cristo, ma hanno incontrato l’umanità sofferente e nel bene che hanno fatto all’umanità, hanno riconosciuto, senza saperlo, il Cristo; così come nel bene che non hanno fatto, hanno rifiutato, senza saperlo, il Cristo.
La separazione che il Cristo Re opera fra le pecore e le capre, riguarda proprio questa scelta nei confronti dell’umanità.
Il criterio di giudizio è proprio il bene fatto all’umanità.
Cosa vuol dirci la liturgia con la scelta di questi brani?
Anzitutto questo: la nostra vita è a due tempi.
Il primo tempo è quello terreno che stiamo vivendo.
In esso, incontriamo Cristo come buon Pastore.
La decisione dipende solo da noi, dalle nostre scelte.
Verrà, però, un momento in cui si varcherà la soglia di questa vita e allora si entrerà in una fase nuova: quella in cui si incontrerà Cristo come giudice.
Allora non avremo più nessuna possibilità di scelta, ma solo possiamo ascoltare il giudizio finale.
Gesù nel vangelo ci invita ad un comportamento di bontà proprio per propiziarci questo giudizio: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. (…), perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio” (Lc 6,37).
E ce lo ricorda ancora attraverso l’apostolo Giacomo: “il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio (Gc 2,13).
Oggi possiamo ancora incontrare Cristo come Buon Pastore, un giorno lo incontreremo come nostro Giudice.
Questo è il tempo della misericordia, oltre questa vita sarà il tempo della giustizia.
Pertanto sta solo a noi, finché siamo in tempo, sforzarci di incontrarlo e conoscerlo oggi, ogni giorno di più come Pastore, affinché non abbiamo a temerlo come Giudice.
Nola, 20 novembre 2020