Le piaghe di Cristo: prove dell’amore di Dio
Le piaghe di Cristo: prove dell’amore di Dio
di frate Valentino Parente
“Ora vedo che l’opera della Redenzione è collegata
con l’opera della Misericordia richiesta dal Signore”
Suor Faustina Kowalska
La II domenica di Pasqua che andiamo a celebrare, è la domenica che San Giovanni Paolo II ha voluto dedicare alla Divina Misericordia.
Questa è la più importante di tutte le forme di devozione alla Divina Misericordia.
Gesù stesso ha voluto questa devozione e lo ha rivelato a suor Faustina Kowalska nel 1931: “Io desidero che vi sia una festa della Misericordia. Voglio che l’immagine, che dipingerai con il pennello, venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo Pasqua; questa domenica deve essere la festa della Misericordia”. (Q. I, p. 27).
La scelta di questa domenica ha un suo profondo senso teologico: indica lo stretto legame tra il mistero pasquale della Redenzione e la festa della Misericordia, cosa che ha sottolineato anche suor Faustina: “Ora vedo che l’opera della Redenzione è collegata con l’opera della Misericordia richiesta dal Signore”. (Q. I, p. 46).
A questa devozione Gesù ha legato il dono di grazie abbondanti. In quel giorno, scrive Sr. Faustina, il Signore “riverserà tutto un mare di grazie sulle anime che si avvicinano alla sorgente della Mia misericordia”, poiché‚ “in quel giorno sono aperti tutti i canali attraverso i quali scorrono le grazie divine. Nessuna anima abbia paura di accostarsi a Me anche se i suoi peccati fossero come scarlatto”. (Q. II, p. 267).
Quanto è consolante questa verità della nostra fede: la Misericordia di Dio!
Un amore così grande, così profondo, che non viene mai meno, che non delude, un amore che sempre afferra la nostra mano e ci sorregge, ci rialza, ci guida e ci dona un fiume di misericordia, nel quale possiamo purificarci dalle nostre miserie.
E veniamo al Vangelo. Al centro di questa domenica ci sono le piaghe gloriose di Gesù risorto.
Egli, apparendo agli apostoli, le mostrò loro già la sera stessa della resurrezione, per fugare dal loro cuore ogni dubbio circa la sua persona e la sua presenza reale. E “i discepoli gioirono al vedere il Signore”.
E in quella stessa sera, gli apostoli ricevettero uno dei doni più grandi che Dio potesse fare ai suoi figli: il dono di amministrare la Sua misericordia; infatti alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».
Questo dono è espressione della grande misericordia che Dio ha nei nostri confronti: egli infatti non può accettare che noi vaghiamo lontani dal suo amore ed è per questo che continua a benedire e perdonare l’umanità attraverso la sua benevolenza.
Ma “Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù”.
Al suo ritorno viene investito da una esplosione di gioia da parte dei suoi amici di avventura: «Abbiamo visto il Signore!».
E qui Tommaso, profondamente rattristato per non aver avuto anche lui una tale gioia, “scatta” in quella sua “sfida” che tutti conosciamo e che così facilmente condanniamo: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò».
Povero Tommaso! Passato alla storia come l’incredulo, come colui che ha bisogno di vedere e toccare per credere. Chissà perché l’evangelista sottolinea che Tommaso era detto Dìdimo, (che significa “gemello”).
Forse vuole dirci che in quel “gemello” senza volto e senza nome ci può essere ciascuno di noi, in quanto tutti viviamo i nostri momenti bui, i nostri momenti in cui facciamo fatica a credere… e dobbiamo ispirarci a Tommaso per camminare e crescere nella fede, per desiderare l’incontro con il Signore.
Quanto ci è familiare questo discepolo! Quanto ci riconosciamo anche noi in lui!
E quanto avrà sofferto Tommaso nel suo cuore per non essere stato presente insieme agli amici in quella occasione privilegiata di poter vedere il Signore.
Per cui, non sarebbe fuori luogo giustificare quella sua “sfida” proprio a motivo del grande amore che aveva per il suo Maestro: è solo per il grande amore che portava al Maestro che Tommaso… “non crede”! Certo un amore ancora tanto umano, tanto limitato, un amore che ha bisogno di… prove, ma sempre amore!
Quante volte sarà capitato anche a noi che qualcuno ci abbia raccontato di aver vissuto un momento grande di gioia, di grande privilegio, raccontando l’evento nei minimi dettagli e facendo crescer in noi una gelosia tale da portarci a… non credere.
Ma non perché riteniamo che l’amico sia falso, semplicemente perché… avremmo voluto essere presenti anche noi a quel momento, avremmo voluto vivere anche noi quella gioia che vediamo traboccare dalle parole dell’amico… Troppo bello per essere vero.
Gesù accetta la sfida e «Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”».
Da questo incontro scaturisce nel cuore di Tommaso esplode l’espressione più alta della fede, “Mio Signore e mio Dio”.
Non riconosce più solo il Maestro Risorto, ma in lui riconosce il Signore Dio…Crede di più rispetto a quel che vede.
Vede le ferite dell’uomo crocifisso e lo proclama Signore e Dio.
Le piaghe di Gesù sono scandalo per la fede, ma sono anche la verifica della fede.
Per questo nel corpo di Cristo Risorto le piaghe non scompaiono, rimangono, perché quelle piaghe sono il segno permanente dell’amore di Cristo per noi, e sono indispensabili per credere in Dio.
Non per credere che Dio esiste, ma per credere che Dio è amore.
Quelle piaghe ne sono la prova più grande. L’esperienza dell’incontro fisico è un dono particolare che è stato concesso a coloro che hanno dovuto fondare la nostra fede con la loro testimonianza, ma non è stato determinante per loro; anch’essi hanno creduto non semplicemente perché hanno visto.
L’insegnamento ci deve portare a comprendere che la nostra condizione attuale, non è inferiore alla loro; non siamo sfortunati perché non abbiamo avuto la possibilità di vedere.
Gesù termina dicendo “Beati!” Beati noi, che crediamo nel Risorto anche senza avere visto.
Napoli, 16 aprile 2020