La sindrome di Caravaggio
La sindrome di Caravaggio
di Achille Della Ragione
La sindrome di Caravaggio si manifesta in maniera diversa a seconda colpisca un comune mortale o un celebre studioso, eventualmente specialista riconosciuto dell’opera del sommo pittore lombardo.
Nel primo caso si avverte in maniera lampante, soprattutto se si è al cospetto dei dipinti dell’ultima fase, pregni di sangue e di dolore, di patimento e di morte, la presenza del male, una sensazione incombente che toglie il fiato ed induce a pensieri tristi e commendevoli.
Nei bambini induce spesso un pianto disperato alternato a singhiozzi. Ne ebbi la conferma quando, in occasione della mostra napoletana sull’Ultimo Caravaggio, tenutasi alcuni anni fa a Capodimonte, le maestre si lamentavano di non poter portare in visita le loro scolaresche, perché la visione delle opere era traumatizzante per i pargoli.
Anche io, col mio gruppo di Amici delle chiese napoletane, organizzai una decina di visite guidate ed i frequentatori avevano un’età media di settant’anni, eppure l’effetto non era dissimile, incubi notturni nei giorni successivi, che colpivano prevalentemente signore d’annata e sensazioni di angoscia, che perduravano settimane anche in generali in pensione e attempati professionisti e magistrati.
Una sottovariante della morbosa patologia, una sorta di sindrome di Stendhal al massimo grado, si avverte poi nel guardare la celebre Medusa degli Uffizi, un quadro straordinariamente bello ed orrifico in egual misura, che induce una vertigine di sensazioni terebranti da indurre la perdita dell’equilibrio, mentre alcuni soggetti urlano a squarciagola.
Ma lo scopo di queste brevi considerazioni sulla sindrome era a margine dell’esaustivo articolo dell’amico Pietro Di Loreto sull’ondata incontenibile di nuove attribuzioni a Caravaggio di quadri assolutamente inadeguati, da parte di critici anche di fama internazionale.
Si potrebbe ipotizzare un motivo meramente economico alla base di questa mania attribuzionistica, perché un quadro che diventa Caravaggio al posto di copia o di ignoto caravaggista aumenta di oltre mille volte il suo valore venale. Da poche decine di migliaia di euro a svariate decine di milioni. Invece l’ansia incontenibile che spinge a dare la paternità del Merisi a quadri improbabili è dettata unicamente dal desiderio per ogni studioso di divenire famoso per la scoperta, carpendo la celebrità dell’artista.
Non si potrebbero spiegare altrimenti errori clamorosi del passato: uno fra tutti quello di battersi per l’autografia del Cavadenti, un quadro di una mediocrità sconcertante, da parte di una studiosa dell’autore riconosciuta internazionalmente come Mina Gregori.
Ed all’incontrario la vicenda del Martirio di S. Orsola, già di proprietà della sede napoletana della Banca Commerciale(non inseguiamo di chi è ora dopo infiniti accorpamenti tra istituti di credito), che nonostante richiamasse a viva voce l’autografia, anche per la presenza in primo piano dell’autoritratto del pittore, è rimasta a lungo nell’anonimato o sotto nomi assurdi come il Preti, prima della decisiva scoperta dei documenti.
Alla mostra attualmente a Firenze, affianco a capolavori, si presentano due nuovi Caravaggio…, mentre l’ultima rivista di storia dell’arte ne presenta addirittura sette.
Dobbiamo giustamente dire Basta!!!, un minimo di serietà ci vuole.
Gli studiosi affetti dalla sindrome e sono molti farebbero meglio a farsi curare da uno psicanalista, invece di vaneggiare con nuove sensazionali scoperte.
P.S. Sulla mostra fiorentina fa testo il competente commento del professor Di Loreto, vorrei solo aggiungere, da napoletanista immarcescibile, un parere sui due pseudo Ribera: il primo è copia da un originale perduto, il secondo è di un ignoto spagnolo, contemporaneo del valenzano, di cui non mi sento di dare un nome preciso.
Napoli, 10 aprile 2019