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La sindrome del gomblotto

di Enrico Tomaselli

 

L’idea che dietro gli avvenimenti ci siano congiure e complotti, è vecchia come il mondo. Storicamente, essa nasceva soprattutto nelle corti e nelle aristocrazie, laddove questa era effettivamente la modalità corrente attraverso la quale si operavano le rotture nei normali schemi politici e di potere. Era, insomma, un modo di agire – e, quindi, di pensare – che si collocava in seno alle elites. Poi in epoche moderne, questa chiave di lettura è diventata – coerentemente – patrimonio tipico del pensiero di destra, per il quale infatti la storia è sempre prodotta dalle elites, comunque da piccoli gruppi.
In epoche ancor più recenti, però, questa sindrome ha preso a diffondersi anche fuori da quell’ambito politico-culturale, raggiungendo ampi settori di opinione pubblica. Il complotto, infatti, ha una doppia valenza: fornisce una spiegazione semplicistica degli avvenimenti (laddove invece la storia umana è sempre caratterizzata dalla complessità), ed al tempo stesso identifica un responsabile indefinito (i poteri forti…) su cui scaricare la rabbia, ma che – per la sua indeterminatezza – consente anche di eludere la possibilità di dover agire concretamente contro di esso. La sindrome del complotto, insomma, il più delle volte produce frustrazione ed inazione, e confonde le idee.
C’è ovviamente un uso strumentale della teoria del complotto, diventato ormai quasi una prassi per molti politici. Rinviare la responsabilità dei propri fallimenti alle oscure manovre dei poteri forti (questo è il topoi), ovvero ingigantire la propria figura ergendosi come colui/colei che li sfida, è ormai entrato nei classici della politica italiana. C’è tuttavia una meno marcata manifestazione di questa sindrome, e se n’è visto l’effetto – negli ultimi tempi in modo particolare – qui a Napoli. La sensazione dell’accerchiamento, dell’accanimento contro la città – di là dall’uso ancora una volta strumentale che può essere stato fatto da qualche politico – si è infatti diffuso largamente. Che si tratti della fiction Gomorra o di un servizio giornalistico sul Rione Traiano, della vicenda di Ciro Esposito o di una puntata di Report sulla pizza, è scattata la reazione “ce l’hanno con Napoli”.
La prima domanda quindi è: davvero c’è un complotto (mediatico, politico, antropologico…) contro Napoli?
Io penso che siamo solo in presenza di pregiudizi. Pregiudizi negativi, il più delle volte, di chi guarda alla città da lontano ed attraverso le cronache; pregiudizi positivi, di molti suoi cittadini, sempre pronti a ricorrere (magari solo come reazione) alla retorica stantia della città più bella del mondo.
In realtà, Napoli è città di grandissima complessità. Storica, e via via accentuatasi. E che quindi, ancor più di altre città, stenta ad essere compresa (contenuta e capita) all’interno di categorie pregiudiziali.
Necessita d’altro. A partire proprio dalla rimozione dei pregiudizi, d’entrambe i segni.

La seconda domanda è: perchè allora gli altri vedono Napoli in un ottica (prevalentemente) negativa?
La (mia) risposta è perchè Napoli si nutre di stereotipi. Una città, ripeto, di grande complessità – storica, culturale, sociale – in cui le diverse stratificazioni che la compongono non sempre sono decifrabili ad uno sguardo superficiale, ma che tende a vedersi e rappresentarsi attraverso stereotipi, il più delle volte stantii. Ovviamente, ogni località famosa nel mondo si fissa nell’immaginario collettivo attraverso degli stereotipi. Che sono la versione semplificata di certe caratteristiche. Semplificata, ma anche accentuata. Il problema è che gli stereotipi napoletani sono per lo più vecchi e negativi. E Napoli (i napoletani) è artefice di gran parte dei propri stereotipi, e li rumina compiaciuta.

La questione vera, dunque, è come la città si percepisce, e dunque come si racconta. Insomma, oggi che la pizza è diventata un food globalizzato, può ancora avere un senso farne un’icona della città?
La narrazione di Napoli va insomma ripensata e ricostruita. Se ne è parlato, tra l’altro, in uno dei tavoli della Fonderia delle Idee (prevedibilmente già finiti nel dimenticatoio). Ma questo processo di ri-costruzione non può essere un operazione di vertice, scaturita dall’azione di una elite (ancora una volta…), altrimenti non funzionerebbe. É un’operazione assai articolata, che richiede tempo e partecipazione. E non può nemmeno essere predeterminata. Una nuova narrazione napoletana non può che nascere dalla città nel suo insieme, e quindi non può essere disegnata a tavolino. Non si tratta infatti di creare un’immagine positiva della città, ma di sviluppare la capacità di raccontarne diversamente la realtà. A partire dal fatto che la sua natura è fortissimamente caratterizzata dalla complessità, che però non va più pensata (e presentata) come problematicità ma come ricchezza.
Non è a partire dalla contrapposizione di una Napoli onesta contro quella criminale, della gente perbene contro malamente e marginali, delle eccellenze contro i fallimenti, che si potrà costruire una trama diversa. Perchè sarebbe monca, dunque falsa. Raccontare non un’altra Napoli, ma raccontare altrimenti Napoli, è un processo che deve partire dall’inclusione. Quella trama va tessuta con tutti i fili della città, nessuno escluso. E dev’essere un racconto in cui la città, tutta, si riconosca.

Napoli, 6 ottobre 2014