Il ritorno dei poveri e la lunga storia del reddito di base
Il ritorno dei poveri e la lunga storia del reddito di base
di Martina Tafuro
Il povero sembrava essere una categoria in via d’estinzione, almeno nelle bulimiche società occidentali. È bastato, però, il venticello della recessione e il tema è ritornato al centro del dibattito. I dati che ci rimandano le statistiche ufficiali, considerano in povertà assoluta chi vive in una famiglia che ha una spesa per consumi inferiore al valore di un paniere di beni e servizi ritenuto essenziale per vivere in modo dignitoso.
I cosiddetti progressisti, hanno pensato bene di voltarsi dall’altra parte, infatti, la distopia dell’intervento straordinario del bonus degli 80 euro, dall’incerto costo di circa 9,5 miliardi di euro, non è stato pensato come uno strumento di contrasto alla povertà, ma per restituire alle classi medie una parte del potere d’acquisto perduto nel corso degli anni, generando, così, la completa devastazione del tessuto sociale.
Allora mi chiedo: “E’ possibile garantire un reddito a ogni persona per renderla libera dalla necessità di avere un lavoro per vivere?”.
Idea radicale, sogno che affascina, che ha assunto sfaccettature diverse a seconda dei periodi storici e delle aree geografiche in cui si è tentato di applicarla.
Il concetto di reddito di base non nasce oggi, pur trovando scarsa applicazione per i suoi costi elevati per il bilancio pubblico e per il fastidio verso l’idea che sia possibile erogare un reddito a chi non concorre, con il lavoro o con la disponibilità al lavoro, ad offrire un contributo alla società.
E’ vero che da più parti si cerca di banalizzare il tema, ma allargare il contraddittorio sul reddito di base significa gettare basi solide per creare una società meno ingiusta e più stabile.
Definizioni
Prima di iniziare il percorso storico del reddito di base, è utile definire il significato di reddito di base/basic income/reddito di cittadinanza e sui modi con cui si differenzia da altre misure come il reddito minimo garantito e il salario minimo.
Reddito di base/basic income (reddito di cittadinanza): È un reddito erogato in modo incondizionato a tutti, su base individuale, senza alcuna verifica della condizione economica o richiesta di disponibilità a lavorare. Da oltre tre decenni convegni europei e mondiali sul tema sono organizzati dalla rete di coordinamento BIEN (Basic Income Earth Network).
Reddito minimo garantito: È un reddito limitato nel tempo che si basa su un programma universale ma selettivo. La concessione del sussidio dipende infatti da regole uguali per tutti. È garantito in base al reddito e al patrimonio di chi ne fa domanda. Nei parametri può anche rientrare il fatto di aver perso un lavoro o di non riuscire a trovarlo. Nel 1992 il Consiglio delle comunità europee ha fatto richiesta per l’introduzione “in tutti gli Stati membri di un reddito minimo garantito, inteso quale fattore d’inserimento nella società dei cittadini più poveri”. la richiesta è stata recepita dall’Italia nell’estate 2018.
Salario minimo: È una remunerazione minima che i datori di lavoro devono per legge dare ai propri dipendenti. La misura, che punta a ridare potere d’acquisto ai lavoratori, contro le disuguaglianze sociali, è prevista in 21 dei 28 paesi dell’Unione europea: varia dai 173 euro al mese della Bulgaria, ai 1.921 euro mensili del Lussemburgo.
Il percorso delle idee nella Storia
Il reddito universale, appartiene a una famiglia di idee correlate tra di loro: reddito universale di base, reddito incondizionato, dividendo sociale, reddito annuo garantito, reddito di cittadinanza, imposta negativa sul reddito, tutte si basano sul concetto di basic income.
Fin dalle sue origini, le diverse proposte si sono articolate intorno ad un’alternativa: estendere l’erogazione delle prestazioni sociali a tutta la collettività, opzione universale. Oppure rivolgerla solo a determinati soggetti, in base alla loro condizione economica, opzione selettiva.
La prima volta che se ne parla è, con tutta probabilità, quando Thomas More immagina nella sua Utopia (1516) un’isola dove a ciascun abitante fossero assicurati mezzi di sussistenza senza dover dipendere da un lavoro.
1795 - 1797. Per risolvere il problema della povertà dilagante in Francia, Thomas Paine, tra i padri fondatori degli Stati Uniti d’America e attivista impegnato nelle rivoluzioni francese, nel suo libro La giustizia agraria, difende l’idea di un fondo alimentato dai proprietari terrieri che permettesse di versare a ciascun individuo un reddito minimo: una somma abbastanza consistente al compimento della maggiore età e poi un pagamento annuo dai 50 anni in su.
1795 - 1834. Erano gli anni in cui l’Inghilterra stava affrontando anni di raccolti scarsi, il prezzo del grano continuava a salire e non vi era possibilità di poterlo importare dall’Europa, a Speenhamland, un distretto a sud del paese, alcuni magistrati si riuniscono in una locanda del villaggio di Speen e decidono di riformare l’assistenza ai poveri, pensando ad un’economia costruita sul diritto di vivere. Fino ad allora secondo quanto regolamentato dall’Act of Settlement del 1662, il lavoratore era legato alla propria “parrocchia”. La Speenhamland Law liberalizzava i lavoratori da queste “corporazioni” e contestualmente prevedeva un sistema di sussidi da aggiungere ai salari. L’idea era di assicurare un reddito di base soprattutto ai poveri e alle loro famiglie indipendentemente dai loro guadagni per raggiungere un adeguato livello di sussistenza. Le quote da assegnare a ogni componente della famiglia sarebbero state quantificate sulla base del prezzo del pane. In poco tempo il sistema si diffonde in tutto il sud dell’Inghilterra e, in particolare, nelle aree rurali e nei distretti manifatturieri. Nel 1832 il governo di Londra avvia un’indagine a livello nazionale sulle condizioni di lavoro, sulla povertà delle zone rurali e sul “sistema Speenhamland”. Il rapporto finale di 13mila pagine giungeva alla conclusione che il piano sperimentato era stato disastroso perché aveva portato a un’esplosione demografica, alla riduzione dei salari e al degrado della classe operaia inglese. Ma, tra il 1960 e il 1970, il rapporto viene riletto da alcuni storici che scoprono che buona parte del testo del rapporto finale era stata scritta prima della raccolta dei dati e che solo il 10% dei questionari distribuiti era stato compilato. Quasi nessuna delle persone intervistate era tra le beneficiarie del sussidio. Nel 1834 il “sistema Speenhamland” viene smantellato definitivamente e, sulla base del rapporto, parzialmente truccato, viene approvato il Poor law amendment act. L’assistenza viene subordinata a condizioni così restrittive da renderla meno appetibile del lavoro salariato.
1848. Nello stesso anno in cui Karl Marx scrive Il Capitale, il giurista belga Joseph Charlier scrive The solution of the social problem, considerato il primo libro in cui viene proposto il reddito di base come soluzione alle disuguaglianze sociali. Charlier, propone il concetto di “dividendo territoriale”, cioè il pagamento ogni tre mesi di una quota annuale stabilita sulla base del valore di affitto delle abitazioni.
1910 - 1920. Dopo le devastazioni della prima guerra mondiale, diversi movimenti sociali chiedono una redistribuzione delle risorse. Nel 1918, nel suo libro Roads to Freedom, il filosofo Bertrand Russell propone il reddito di base come strumento di giustizia sociale. In Gran Bretagna, Bertrand Pickard e i coniugi Milner pubblicano l’opuscolo Scheme for a State Bonus: A Rational Method of Solving the Social Problem, in cui chiedono un “bonus statale” settimanale per tutti i cittadini del Regno Unito.
1930. La cancellazione di posti di lavoro e l’impennata della povertà a causa della Grande Depressione del 1929 porta il reddito di base al centro del dibattito pubblico negli Stati Uniti. Nel 1934 il senatore della Louisiana, Huey Long lancia alla radio il suo manifesto politico Share Our Wealth (ndr, “condividi la nostra ricchezza”), in cui chiede di confiscare i beni dei ricchi e garantire a tutte le famiglie un reddito annuo. Il progetto fu interrotto dall’assassinio di Long un anno dopo. Sempre nel 1935, il presidente degli Usa, Franklin D. Roosevelt, firma il Social Security Act, creando il programma di anti-povertà noto come “Sostegno alle famiglie con figli a carico” o “welfare”.
1940. Gli economisti conservatori Milton Friedman e George Stigler, iniziano a elaborare l’idea di un sistema fiscale che garantisca una maggiore uguaglianza del reddito senza però trasformarsi in assistenza pubblica. È la prima teorizzazione di un pensiero che porterà poi negli anni ‘60 all’elaborazione della proposta di imposta negativa sul reddito (NIT).
In quegli stessi anni, nel 1943, in Gran Bretagna, Lady Rhys Williams, nel libro Something to Look Forward To avanzava la proposta di un “dividendo sociale” da destinare a tutti coloro che avessero lavorato e fossero disposti a tornare al lavoro, tramite l’iscrizione alle liste di disoccupazione. Il fisco statale avrebbe dovuto farsi carico di questo contributo, definito in base a una quota del reddito medio collettivo.
Qualche anno dopo, negli Usa, l’economista George D. H. Cole rielabora il concetto di dividendo sociale: “il patrimonio di un paese è il risultato congiunto degli sforzi e dell’inventiva e perizia ereditata nel tempo da generazioni e generazioni di un’intera società. Per questo motivo, tutti i cittadini dovrebbero condividere la rendita di questo patrimonio attraverso una sua ridistribuzione sotto forma di premi e incentivi”. Nella sua presentazione del libro di John Stuart Mill, Storia del pensiero socialista, Cole è il primo a utilizzare il termine “reddito di base“.
Decennio ‘60 -’70. Negli anni ‘60, negli Stati Uniti, il reddito di base torna a essere proposto come soluzione di contrasto alla povertà e alla disoccupazione, a fronte anche della massiccia migrazione di afro-americani nel nord del paese. Nel 1963, lo scrittore e sociologo Dwight Macdonald, studioso delle culture di massa, in una famosa recensione del libro The Other America del socialista democratico Michael Harrington sul New Yorker, sosteneva la necessità di un reddito garantito per tutte le famiglie. Nel 1962, nel libro Capitalismo e Libertà, Milton Friedman definiva la sua idea di imposta negativa sul reddito. La NIT metteva in connessione due flussi di denaro di segno opposto tra Stato e contribuenti: chi era sotto la soglia riceveva un sussidio, chi era al di sopra pagava le tasse. Dai soldi delle tasse si ricavavano i fondi per finanziare i sussidi. Dato un limite di 10mila dollari per famiglia, un nucleo familiare con reddito di 8mila dollari avrebbe ricevuto il 25% della quota mancante per arrivare al tetto di 10mila. Una cifra pari a 500 dollari. Una famiglia con reddito 0, avrebbe ricevuto 2500 dollari. Secondo Friedman, collegando la tassazione dei più ricchi e il contributo ai più poveri, il settore pubblico avrebbe potuto immediatamente attuare una redistribuzione del reddito (alternativa all’esenzione fiscale per i più poveri). In questo modo, secondo l’economista, sarebbe stato possibile contenere la spesa sociale e garantire benefici effettivi ai cittadini meno abbienti.
Mentre aumentano le proteste in tutta l’America, con richieste di giustizia economica (in un discorso del 1967, Marthin Luther King chiede un reddito minimo garantito per tutti), l’équipe dell’Ufficio di Economic Opportunity – il team di consulenti che lavorò all’elaborazione della Great Society, un insieme di programmi statunitensi di riforma annunciati dall’allora presidente Lyndon B. Johnson, che avevano l’obiettivo di ridurre la povertà ed eliminare l’ingiustizia sociale – inizia a progettare la sperimentazione su larga scala dell’idea di imposta negativa sul reddito. Nel 1968, grandi capi di aziende e più di 1200 economisti e studiosi firmano una dichiarazione chiedendo un “sistema nazionale di reddito garantito”.
Nello stesso anno l’idea di Friedman viene sperimentata in New Jersey da uno studio condotto dall’Istituto di Ricerca sulla povertà dell’Università del Wisconsin e da una società di Princeton, Mathematica Inc., che si sarebbe occupata della ricerca sul campo e della raccolta dei dati. Si voleva verificare se l’imposta negativa sul reddito portasse a lavorare meno e ad abbassare i salari. Dalla sperimentazione venne fuori che lo strumento pensato da Friedman non riusciva a garantire contemporaneamente: a) un reddito dignitoso per tutti; b) un incentivo a lavorare; c) il pareggio tra costi e ricavi. Inoltre, dalla ricerca emerse che in presenza di esenzioni di vario genere e di un sistema di welfare, le misure già in vigore erano ritenute più vantaggiose del NIT.
Successivamente l’Istituto di Ricerca di Stanford analizzò i dati di una sperimentazione fatta a Seattle e Denver. I tre ricercatori che condussero la ricerca giunsero alla conclusione che il NIT portava a una riduzione del lavoro del 90% tra gli uomini e del 18% tra le donne e a una disgregazione dell’unità familiare: avere in famiglia un salariato non era più vantaggioso ai fini fiscali e la possibilità di avere un reddito garantito riduceva i vincoli del capo famiglia a restare nel nucleo familiare. Altri studiosi contestarono l’attendibilità dello studio di Stanford.
1969 - 1972. In un discorso televisivo nell’agosto del 1969, il presidente degli Usa, Richard Nixon, presenta il piano di assistenza familiare (FAP). Il piano rappresentava una rottura radicale con le politiche sulla povertà del passato e con il sistema di welfare allora attuale. Per la prima volta veniva cancellata la distinzione tra “meritevoli” poveri (gli anziani, i disabili, le madri con bambini piccoli) e “immeritevoli” (persone fisicamente in grado di lavorare). Con il FAP, sia le famiglie con a capo adulti che lavorano sia con disoccupati erano ammissibili al sostegno.
Il FAP prevedeva che una famiglia media di quattro persone avrebbe dovuto ricevere 1600 dollari al mese. La proposta non ebbe i voti necessari al Congresso per ben due volte, trovando l’opposizione dei partiti conservatore e democratico. Nel 1970 il disegno di legge passò facilmente alla Camera dei Rappresentanti, ma fu bloccato nella commissione finanze del Senato. Nel 1972 il candidato democratico alla presidenza, senatore George McGovern, presentò una sua proposta di reddito minimo. Il senatore suggeriva che “ogni uomo, donna e bambino dovesse ricevere dal governo federale un pagamento annuale”, che “non varia in accordo con la ricchezza del destinatario”, né era subordinato al nucleo familiare. La proposta non trovò il sostegno necessario.
1974 - 1979. In Canada, tra il 1974 e il 1979, il governo trasforma la piccola e isolata città di Dauphin, nella provincia di Manitoba, in un laboratorio vivente dove residenti qualificati ricevono un reddito annuale garantito di circa 15mila dollari per una famiglia di quattro persone. L’esperimento voleva valutare se (e in che misura) un reddito annuale garantito e incondizionato disincentivasse al lavoro. I dati della sperimentazione canadese sono stati analizzati solo di recente dall’economista Evelyn Forget. Sono stati scoperti, infatti, da uno studioso solo nei primi anni 2000, impacchettati in 1800 scatoloni in un magazzino di Winnipeg. Secondo l’analisi di Forget, la sperimentazione portò a un incremento del tasso di scolarizzazione, a un calo dei ricoveri in ospedale (perché i cittadini avevano maggiore possibilità di procurarsi le cure di base) e a una diminuzione solo dell’1% della quantità delle ore di lavoro.
Nel 1976, in Alaska, poco prima della conclusione dei lavori della Trans-Alaska Pipeline, il governatore Jay Hammond propone un sistema di dividendi da versare a tutti i cittadini dell’Alaska da un fondo di Stato proveniente dai proventi del petrolio. Il programma dispensò i primi dividendi nel 1982, diventando di fatto il primo sistema di reddito di base negli Usa. Nel 2015 lo Stato ha inviato assegni di 2072 dollari a quasi 650mila residenti.
Anni ’80. In Francia, André Gorz, uno dei principali teorici di ecologia politica e della decrescita, parla di reddito di autonomia, come mezzo per affrancarsi dall’alienazione del lavoro a catena, mentre il filosofo Michel Foucault individua nel reddito incondizionato la liberazione dal controllo sociale da parte dello Stato. Nel 1986, Philippe Van Parijs, crea insieme ad altri pensatori la prima conferenza europea sul reddito di base che punta a sconfiggere la povertà e permettere alle persone di poter vivere indipendentemente dal reddito da lavoro. Alla fine del convegno nasce il Basic Income Europe Network (BIEN). Nel 2004, l’organizzazione viene ribattezzata con il nome di Basic Income Earth Network.
Anni ’90. L’amministrazione Clinton introduce l’Earned Income Tax Credit, una forma di “credito di imposta” sul reddito o (in alcuni casi) di “rimborso federale” per i lavoratori a basso reddito. Per poter aver accesso alla misura era necessaria la cittadinanza statunitense (gli stranieri dovevano essere coniugati con cittadini americani), essere iscritti alla previdenza sociale e aver lavorato durante l’anno fiscale. Nel 1997 il Messico lancia un programma su vasta scala di trasferimento condizionato di contanti (CCT), un sistema di pagamenti diretti in denaro alle famiglie povere. Esperienza seguita nel 2001 da Brasile e Colombia. Sebbene il CCT non sia identico al reddito di base (si prevede infatti una sovvenzione in base alla presenza di alcuni specifici requisiti, come la scolarizzazione dei figli ed essere sotto la soglia di povertà), esso si fonda sullo stesso presupposto che tali sovvenzioni possano servire ai beneficiari per migliorare la loro condizione sociale e di vita. I programmi CCT si sono diffusi rapidamente in tutta l’America Latina nei primi anni 2000 e poi in alcune aree dell’Asia e dell’Africa. Decine di milioni di persone impoverite in tutto il mondo ora ricevono assistenza finanziaria attraverso trasferimenti condizionati di contanti, finanziati da governi, organizzazioni umanitarie internazionali e organizzazioni non profit.
Anni 2000. Nella conferenza del network mondiale del Basic Income, tenutasi a Città del Capo, in Sud Africa, nel 2006, l’allora capo della Chiesa luterana evangelica della Namibia, Zephania Kameeta, intervenne dicendosi stufo delle sterili discussioni accademiche che avevano animato l’incontro. Nel 2009 Kameeta tentò di avviare un progetto pilota di reddito di base in un’area molto povera. Nel 2010 un gruppo di ricercatori ha iniziato una serie di sperimentazioni di reddito di base nelle zone rurali dell’India che ha coinvolto più di 6000 persone.
DODICI MOTIVI PER CUI LA POVERTÀ È ILLEGALE
1. Nessuno nasce povero né sceglie di esserlo. Tutti noi nascendo riceviamo la vita, è lo stato della società nella quale nasciamo che ci fa poveri o ricchi.
2. Poveri si diventa. La povertà è una costruzione sociale. La povertà non è un fatto di natura come la pioggia, è un fenomeno sociale, costruito e prodotto dalle società umane. Le società scandinave degli anni ’60-’80 sono riuscite a far sparire i processi strutturali d’impoverimento e a ridurre i processi d’esclusione ad ambiti molto limitati di povertà materiale.
3. Non è la società povera che produce povertà. La povertà, non solo materiale, si è nuovamente sviluppata dalla seconda metà degli anni ’90, perché le classi dirigenti hanno cambiato la loro visione del mondo ed operato scelte diverse da quelle del passato.
4. L’esclusione produce l’impoverimento. L’esclusione riguarda sia l’accesso economico e sociale ai beni e ai servizi necessari ed indispensabili ad una vita degna e dignitosa, sia l’accesso alle condizioni e alle forme di cittadinanza civile, politica e sociale odierna. L’esclusione tocca l’insieme della condizione umana.
5. In quanto processo strutturale, l’impoverimento è collettivo. Esso non riguarda solo una persona ma i nuclei familiari, intere popolazioni come gli immigrati, i nomadi… e categorie sociali particolari come lavoratori precari, contadini, anziani...
6. L’impoverimento è figlio di una società che non crede nei diritti di vita e di cittadinanza per tutti né nella responsabilità politica collettiva per garantire tali diritti a tutti gli abitanti della Terra. I nostri governanti non credono nell’esistenza dei diritti umani di vita e di cittadinanza universali, indivisibili e imprescrittibili. Se sono obbligati dalle leggi a rispettarli, per esempio le Costituzioni, essi credono che non siano fruibili per tutti. Inoltre, negli ultimi decenni, sono riusciti ad imporre che l’accesso ai diritti umani e sociali deve essere pagante, è il caso del diritto all’acqua o della salute di base.
7. I processi d’impoverimento avvengono in società ingiuste. Le società ingiuste sono negatrici dell’universalità, dell’indivisibilità e dell’imprescrittibilità dei diritti di vita e di cittadinanza e, quindi, negatrici dell’uguaglianza di tutti gli abitanti del Pianeta di fronte ai diritti. Queste società credono che l’accesso economico e sociale ai beni e servizi necessari e indispensabili alla vita sia una questione di iniziativa personale o di gruppo e di merito individuale.
8. La lotta contro la povertà (l’impoverimento) è anzitutto la lotta contro la ricchezza inuguale, ingiusta e predatrice (l’arricchimento).C’è impoverimento perché c’è arricchimento. I processi d’impoverimento avvengono perché nelle società ingiuste prevalgono i processi di arricchimento inuguale, ingiusto e predatorio.
9. “Il pianeta degli impoveriti“ è diventato sempre più popoloso a seguito dell’erosione e della mercificazione dei beni comuni perpetrate a partire dagli anni ’70. I gruppi dominanti hanno dato sempre di più valore unicamente alla ricchezza individuale. Essi hanno cancellato nell’immaginario dei popoli la cultura della ricchezza collettiva, in particolare dei beni comuni pubblici.
10. Le politiche di riduzione e di eliminazione della povertà perseguite negli ultimi quaranta anni sono fallite perché si sono attaccate ai sintomi (misure curative) e non alle cause (misure risolutive). A causa del perseguimento di politiche economiche e sociali aventi obiettivi antitetici rispetto a quelli anti-povertà, si sono tradotte in politiche contro i poveri. Da qui i fenomeni di criminalizzazione dei poveri.
11. La povertà è oggi una delle forme più avanzate di schiavitù perché basata su un “furto di umanità e di futuro”. La schiavitù moderna, è un furto di umanità perpetrato nei confronti di miliardi di esseri umani esclusi dalla cittadinanza, ai quali per conseguenza si è anche rubato il futuro.
12. Per liberare la società dall’impoverimento bisogna mettere “fuori legge” le leggi, le istituzioni e le pratiche sociali collettive che generano ed alimentano i processi d’impoverimento. È possibile uscire dalla povertà e liberare la società dall’impoverimento, mettendo fuori legge quelle disposizioni legislative e misure amministrative, quelle istituzioni e quelle pratiche sociali collettive che, ai livelli decisivi locali, nazionali e mondiali, costituiscono gli agenti di alimentazione e di crescita dei processi di ricchezza inuguale, ingiusta e predatrice.
Napoli, 25 settembre 2018