Il frutto del lavoro dell’uomo. Matteo Tafuro. Nola
Il frutto del lavoro dell’uomo
di Matteo Tafuro
Scrivo queste cose mentre commemoro con incontenibile goduria una grande tavolata con braciola di cotenna bollente, pelosa e fumante. È l’allegoria della mia beneamata collettività vivente e viva che consuma all’unanimità, gioiosamente festante, il frutto del meticoloso lavoro di imballaggio della suddetta, celebrando il comune vincolo affettivo che stringe tutti in un solo abbraccio.
La storia del cibo, del mio cibo, è fatta anche di questi salvifici riti. Nei tempi antichi l’homo erectus aveva due riti. Uno piuttosto condiviso di cannibalismo, consisteva nell’estrazione del cervello del parente defunto, che veniva mangiato per acquisire le sue virtù. L’altro consisteva nella conservazione della mandibola scarnificata e il cadavere, probabilmente, veniva disperso come accade ancor oggi presso certi primitivi.
Ruperto de Nola, cuoco spagnolo alla corte di Ferdinando I re di Napoli, è stato autore del primo libro di cucina: Llibre del Coch. Quindi mi sento autorizzato a parlare di cibo.
D’altra parte, il rapporto tra cibo e religioni è sempre stato importante. Ai Musulmani è vietato mangiare carne di maiale e bere bevande alcooliche. Agli Ebrei è vietato mangiare carne di maiale. I Cattolici non devono mangiare carne il venerdì, nei giorni della Quaresima.
Insomma, cibo e rituali sociali sono sempre stati legati in tutte le epoche e le culture, dalle valenze religiose a quelle più conviviali delle pratiche umane, il cibo e le abitudini alimentari non si rivelano mai pratiche dalla valenza neutra ma connotate di significati simbolici, emozionali e collettivi che fanno del cibo e della tavola teatro di costruzione e ricostruzione dei rapporti, delle identità e dei valori che fondano una cultura attraverso le varie epoche che la attraversano. Assistiamo in questi mesti e tristi tempi, però, a un rovesciamento radicale di prospettiva, poiché non si produce più cibo per mangiarlo ma per venderlo.
Nel momento in cui la fame sembra vinta, almeno in occidente, l’unico valore attribuibile al cibo è quello di mercato. Essendo i mangiatori di cibo dei consumatori, per essi quest’ultimo deve costare il meno possibile. Qui non entra in gioco solamente la legge della domanda e dell’offerta, ma è la necessità irrazionale di rendere immortale la vittoria sulla fame. In ogni caso quello che è certo è che il cibo deve costare quanto meno è possibile. Ma, c’è sempre un ma, quando il prezzo è basso il suo valore è minimizzato e lo si può sprecare abbondantemente quanto impunemente.
Nei paesi a forte industrializzazione, secondo studi internazionali, si butta via dal trenta al cinquanta per cento degli alimenti prodotti nel territorio. A partire dalle logiche di marketing aggressivo adottate dalla grande distribuzione, per cui gli scaffali sono sempre pieni e dove è impedita, attraverso la tecnica del packaging, ogni forma di risparmio e conservazione.
Andiamo a guardare nel retro di un supermercato: imballaggi, prodotti appena scaduti, frutta e verdura non più esteticamente presentabile sugli scaffali, una prediscarica insomma, dove si accumula tutta la merce invenduta per essere buttata.
Stessa sorte che tocca al nostro pane e affini, lo vogliamo sempre fresco di giornata e alla sera l’invenduto, seppure ancora commestibile, viene gettato nella spazzatura. Lo spreco più significativo è quello che ha luogo in famiglia, qui i frigoriferi e i congelatori, nati con il proposito della conservazione e del risparmio, sono diventati l’anticamera della spazzatura. Un tempo la conservazione del cibo era una prassi vitale per la famiglia, oggi la cultura usa e getta, ha trasformato la tecnologia della conservazione in legittimazione dello spreco. Ho voglia di mangiare solo mezza scatola di tonno, tanto la metto in frigo, acquisto più carne di quel che serve, tanto la congelo.
Cose che si verificano molto di rado e intanto… . gli avanzi finiranno nella spazzatura. Infine, sono i terreni stessi che vengono mangiati dal cibo, il disboscamento, l’utilizzo massiccio di fertilizzanti chimici e anticrittogamici stanno distruggendo la terra nella quale viviamo.
Un tempo andare in campagna significava rigenerarsi, materialmente e spiritualmente, dalla vita inquinata della città. Oggi, al posto dell’equilibrio e dell’armonia tra uomo e natura sembra che ci sia stata una dichiarazione di guerra: l’agricoltura industriale ha dichiarato guerra alla Terra. Tutto queste situazioni hanno aperto le porte a una deritualizzazione del cibo poiché il pasto e le sue valenze si stanno gradualmente destrutturando in favore di una sempre maggior assenza di regole, di luoghi, tempi e spazi comuni prima invarianti.
In un certo senso siamo quindi ciò che mangiamo o, meglio, si potrebbe dire che mangiando comunichiamo sempre qualcosa di noi, non solo come individui, ma come cultura cui apparteniamo.
Nola, 9 dicembre 2024