È tutta questione di utero
È tutta questione di utero
di Martino Ariano
In un’ansia di omologazione che tende
a destrutturare la dualità maschile/femminile,
prerogative come l’autodeterminazione
della femminilità sono relativizzate.
Chi è oggi la donna?
Come viene rappresentata?
Come è vista e addirittura utilizzata?
L’utero, al pari della vulva, è il protagonista attivo di polemiche scientifiche, sociali, culturali ed etiche tra le più forti, sentite e durature nell’autodeterminazione della donna.
All’utero sono connessi argomenti come quello del sesso, della procreazione, della gravidanza ed infine dell’aborto.
Quest’ultimo tema è ritornato in piazza, anche nel senso pratico del termine, dopo la legge contro l’aborto emanata in Polonia alla fine di gennaio.
In generale, sono argomenti che interessano diversi ambiti che tra loro comunicano, si confrontano e soprattutto si scontrano.
Entrano in gioco la medicina, la ricerca scientifica, l’etica, la morale e la religione.
Ma non voglio entrare in questi dibattiti, molto delicati e spigolosi, che richiedono non poca soggettività e soprattutto non poca conoscenza delle argomentazioni.
Quindi, lascio a voi approfondire tecnicamente questi temi. Lascio a voi le vostre ragioni morali, come lascio a voi sviluppare una vostra idea.
Io voglio soltanto cercare di farvi provare delle emozioni, presentandovi alcune opere d’arte, che si focalizzano proprio su questi temi.
Degna di nota è la mostra “Portraying Pregnancy. From Holbein to Social Media” tenutasi nel 2020 presso il Foundling Museum di Londra, che raccoglieva dipinti, fotografie, abiti ed oggetti, dal XV secolo ad oggi sul tema della gravidanza. Ciò ha reso tale mostra la prima nel suo genere, cioè la prima completamente dedicata al tema della gravidanza.
Artisticamente siamo abituati a svariate versioni di “maternità”, alcune stilisticamente e storicamente rivoluzionarie, delle Madonna col Bambino o alle altrettanti svariate Adorazione dei Magi, che hanno profilato soprattutto nell’Arte Medievale e Moderna.
Non dimenticando l’importante contributo dell’Arte Bizantina con la Theotokos di Vladimir (1131), tra le tantissime opere medievali da citare c’è ovviamente la Maestà (1308-1311) di Duccio di Buoninsegna.
Un capolavoro senese che riassume tutte le istanze e le conquiste artistiche dell’arte medievale in una tavola dipinta su entrambi i lati di quasi 5 metri.
Ma oltre a queste canoniche raffigurazioni della Maternità, a cavallo tra il Medioevo e l’Era Moderna, passando per il Risorgimento italiano, si possono incontrare due opere che pur distanti geograficamente, vedono lo stesso soggetto raffigurato, ovvero una donna incinta.
Nel primo caso, non è una donna qualunque, ma bensì una Madonna.
Mi sto riferimento all’affresco della Madonna del Parto (1455-1460) di Piero della Francesca.
Usata già da Taddeo Gabbi nella sua Madonna del Parto, Piero della Francesca la rende pienamente sua strutturandola matematicamente con il suo caratteristico rigore prospettico, la sua plasticità e inespressività delle figure.
Nel secondo caso, pure essendo una donna incinta la protagonista, o meglio la coprotagonista, essa non è una Madonna, ma una donna comune.
L’opera a cui mi riferisco è il famoso Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434) del pittore fiammingo Jan van Eyck.
Oltre alla poetica e alle illusioni simboliche e storiche connesse a tale ritratto, mi soffermerei sul ritratto della consorte di Giovanni Arnolfini, una donna incinta, la cui gravidanza è enfatizzata dal drappeggio dell’abito a cappa verde e dalla mano posata sul ventre.
Ma entriamo nel pieno dell’Arte Moderna con l’opera di Caravaggio Morte della Vergine (1601-1606, Olio su tela, 369 x 254 cm, Musée du Louvre, Parigi).
Quando si parla di Caravaggio si apre un mondo di simboli, idee e stile, che ritroviamo in pieno in quest’opera.
Luce zenitale, chiaroscuro introspettivo, realismo cupo, il rosso sangue come colore dominante, il forte simbolismo, ma anche, seppur velati, l’anticonformismo e lo scandalo.
Quest’ultimi due sono racchiusi e personificati dalla Vergine.
Ad una più attenta osservazione si nota, infatti, che la Vergine, accentuata dalla luce zenitale e dal forte chiaroscuro, presenta il viso e il ventre gonfi. La donna è chiaramente incinta.
Ma lo scandalo non si ferma a questa scelta, già di per sé discutibile, infatti, Caravaggio, che soleva usare modelli umani per le sue opere, usa in questo caso una modella, che è una prostituta realmente morta (annegata nel Tevere).
E lo scandalo è presto servito e la Vergine per Caravaggio diviene una prostituta incinta.
Forse ad oggi questa scelta non fa molto scalpore, ma all’epoca, l’epoca d’oro per la Chiesa, lo fece e come.
Uno scandalo che si tinge di rosso sangue e che può entrare a pieno titolo negli scandali vendicatrici di diritti e di libertà.
Ora avviciniamoci ai giorni nostri.
Attualmente siamo abituati alla Fotografia Pre-maman, in cui fotografi catturano donne in dolce attesa, spesso con pancioni decorati, in alcuni casi, quest’ultimi, veri esempi di Body Art.
Dal secolo delle Avanguardie e precisamente da Vienna, però, è Gustav Klimt a regalarci due opere dedicate alla maternità, Speranza I e Speranza II.
Ovviamente chiari sono i suoi rapporti con la Secessione Viennese e l’Art Nouveau.
Klimt in queste due opere rappresenta la donna incinta in chiave psicologica, caricandola di simboli, come suo solito, e restituendoci un essere quasi evanescente.
Nel primo caso, nell’opera Speranza I, la donna ci osserva nuda, di profilo, magra e pallida. A padroneggiare la scena è lei con il ventre sporgente.
La donna sembra intimidita e non traspare nessun elemento di tenerezza o dolcezza, anzi trapela inquietudine.
Quest’ultima accentuata dalle figure sullo sfondo, fortemente simboliche, che fanno eco alla nuova vita, presente nel ventre della donna, e che sono presagio del futuro, forse funesto.
Nella Speranza II, del 1907, Klimt riprende lo stesso tema, aggiungendo un sottotitolo all’opera: Visione, fecondità, leggenda.
Quest’opera, rispetto a quella citata prima, risente dell’influenza dell’Art Nouveau. Basti osservare il fondo dorato e la veste dai preziosi arabeschi.
Tutto ciò azzera la prospettiva, appiattisce la figura.
In quest’opera la donna è centrale, raccolta intorno al suo ventre e si presenta seminuda, ha solo i seni scoperti.
La raffigurazione in generale sembra più gioiosa, ma ad una più attenta osservazione si notano elementi che incupiscono l’intera scena: tra le forti cromie della veste, in basso, si intravedono tre figure femminili in preghiera e, se ci concentriamo sul ventre della donna, si scorge un teschio.
Chiari simboli e rimandi alla psicologia della maternità.
L’ultima opera legata al tema “utero”, procreazione, gravidanza, è un’opera d’arte contemporanea.
È una scultura/installazione in marmo ancora visibile in Piazza Plebiscito, a Napoli, intitolata Look Down, opera di Jacopo Cardillo, in arte Jago.
L’opera raffigura un bambino in posizione fetale con tanto di cordone ombelicale, costituito da una catena.
Questa scultura/installazione nasce come invito a guardare in basso, ai più deboli, ai più fragili, agli ultimi o a tutti coloro che fanno fatica a rompere le proprie catene o semplicemente a vincere le proprie paure, e che spesso hanno bisogno dell’aiuto degli altri nel vincerle, nel sollevarsi, nell’andare avanti, nel crescere.
Diviene anche, secondo me, un forte richiamo alla vita.
Un feto, un neonato non è forse simbolo della vita stessa?
Così come la scultura sembra essere buttata lì a caso, abbandonata in una delle piazze più belle d’Italia, quante volte, noi, per paura, per errore, per banale divertimento, per egoismo, per pigrizia, buttiamo via pezzi o intere vite?
Diamo valore a ciò che è vita.
Marzano di Nola, 15 febbraio 2022