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È in atto una rissa tra ignoranti?

 Mi sento emarginato in una vita senza margini… provo una rabbia che nemmeno immagini

 di Matteo Tafuro

 

LIBERI SENZA MARGINI

Mi sento un emarginato in una vita senza margini

provo una rabbia che nemmeno immagini

mi hai rubato il cuore ho aperto le indagini

ho valicato tutti gli argini

ho bevuto rime dai miei calici

Il mio sogno cresce e ormai non entra più nel cassetto

il mio orgoglio cresce e ormai chiede anche rispetto.

Sogno che volo e mi butto dal tetto.

Mi sveglio c’è un angelo appoggiato sul letto

che mi dice: Matté senti per realizzare il tuo sogno

dovrai soffrire te la senti?

Non hai idea dei rischi che prendi delle persone che perdi.

Ma quando hai iniziato non è che ti arrendi

non è che ti accontenti o te ne penti

devi puntare sempre e solo in alto questo

è il momento del tuo grande salto perché

è quello il tuo posto ma a quale costo?

Sussulto e lui scompare in una scia di luce mi alzo

e svengo con sguardo truce

mi trovo con NoS il mio incubo più grande

che si aggira in me facendo scorribande

mi trovo con NoS il mio ispiratore

con cui nel terrore passo molte ore

in cui della rabbia è l’alimentatore.

Mi sento un emarginato in una vita senza margini

provo una rabbia che nemmeno immagini

mi hai rubato il cuore ho aperto le indagini

ho valicato tutti gli argini

ho bevuto rime dai miei calici

tratto da: La città dell’ ombra – 2016 – NoS (Matteo Tafuro)

Zygmunt Bauman ha descritto la storia dell’umanità, come il processo di espansione della parola noi.

Per il filosofo polacco il primo noi includeva poco più di 150 persone: “Erano cacciatori e raccoglitori. Non avevano autobus, supermercati…. era un numero limitato a quelli che poteva essere alimentato e muoversi. Il resto era altro dal noi. Col tempo questa cifra è aumentata e si è giunti alle tribù, alle comunità, e poi gli imperi e gli stati nazione”.

In questo nostro tempo, fatto di velocità e di rapporti sociali liquidi, siamo in stallo bloccati laddove: “Tutte le tappe e i balzi che ci sono stati avevano una dato in comune: erano tappe caratterizzate da inclusione e esclusione. C’era un noi che si ampliava, ma anche una identificazione dell’Altro escluso dal noi. E questo ha portato a grandi spargimenti di sangue. Ora c’è la necessità ineludibile dell’espansione del noi come prossima tappa dell’umanità. Questo salto successivo è rappresentato dalla soppressione del pronome loro”.

Bauman ci dice che i nostri avi avevano un nemico, identificato da un loro. ”Ma oggi, nella società globale dove lo troviamo un nemico? Non ci è stato chiesto da nessuno, ma ci troviamo nella dimensione cosmopolita in cui ogni cosa ha un impatto sul pianeta, sul futuro e sui nipoti dei nostri nipoti. Siamo tutti dipendenti gli uni dagli altri”.

Il rovescio della medaglia, citando sempre Baumann è che “non abbiamo neppure iniziato a sviluppare una consapevolezza cosmopolita. E gestiamo questo momento con gli strumenti dei nostri antenati…ed è una trappola, una sfida da affrontare”.

Il grande scrittore marocchino, Fouad Laroui, invita tutti a non inasprire lo scontro di ignoranze in atto evidenziando con mestizia che noi “non capiamo nemmeno chi è l’altro, non cerchiamo nemmeno di capire chi è di fronte a noi”.

Ancora una volta esiste un noi ed esiste un loro, ma non si capisce dove e perché inizia l’uno e finisce l’altro.

Richard Sennet, sociologo americano, afferma che per affrontare questa sfide bisogna cambiare l’urbanistica, creando quartieri ed edifici porosi, cioè permeabili che come spugne riescono a promuovere l’integrazione.

Pensare di arroccarci nella nostra identità, di “esimerci dal contatto e dalla contaminazione con gli altri è ridicolo, un’illusione”, respingere chi cerca aiuto, “una nuova forma di fascismo”.

Sennet afferma che il “nuovo tribalismo”, che combina la solidarietà con i propri simili e l’aggressività contro chi è diverso, è frutto di un’incompetenza sociale, un’incompetenza favorita dal modo in cui sono costruite le nostre città. Sistemi chiusi, sigillati, che dequalificano i cittadini e neutralizzano le differenze, eliminando quegli spazi ambigui in cui si può imparare a fare un uso produttivo della diversità. Perché la cooperazione con gli altri, specie con gli estranei, è una competenza, un’arte che va acquisita. Quindi le città aperte, porose e dinamiche, possono aiutarci a esercitarla, rendendoci cittadini migliori.

Thomas Schelling, economista e premio Nobel, in uno studio fatto tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, diede prova che contesti sociali all’interno dei quali si viveva in totale segregazione etnica o religiosa sono il frutto di simpatie personali fragili emotivamente e condivisibili. Per avere quartieri interamente abitati da un singolo gruppo etnico non è necessario che i cittadini pensino: “Non voglio avere nella mia area nessuna persona di un altro gruppo etnico”, basta semplicemente applicare la semplice formuletta:”Non voglio vivere in una zona dove più di un terzo degli abitanti sia di un altro gruppo etnico”.

La società che si professa civile è il luogo della perfetta armonia delle diversità, dove ogni libero individuo matura e prospera perché giorno per giorno entra in crisi per le idee diverse dalle sue. Solo così diventa più libero e con dentro una parte delle idee dell’altro che parlando parlando, sono diventate sue.

Nella vostra bella società dopata come un malato terminale di arroganza e ingiustizia, urgono pacchi di flebo, di gratitudine sociale per ripristinare i corretti parametri del FIL (Felicita Interna Lorda). Ascoltare, scontrarsi, dialogare con chi non la pensa come me è il primo mattone di ogni buona convivenza.

Nella relazione di reciprocità c’è l’accettazione del rischio, poichè si può dare e non ricevere quando si chiede.

Questo rischio si può annullare solo avendo fiducia nell’altro, processo indispensabile per inaugurare un mondo che ridistribuisce futuro, l’unico antidoto per dare reale sostanza alla speranza.

Napoli, 18 marzo 2019