Changemaker di tutto il mondo, unitevi!
Changemaker[1] di tutto il mondo, unitevi!
di Martina Tafuro
“In questo prolungato periodo di collasso sistemico,
la modernità industriosa potrebbe offrire il progetto
di un modello sociale diverso in grado di sopravvivere,
e forse anche prosperare, in quello che rimane
delle “rovine capitaliste”
Adam Ardvisson
Quale sarà il futuro del capitalismo?
Tutti lo vorrebbero diverso, però nessuno è in grado di produrre un’alternativa credibile, ma tutti desiderano un cambiamento.
Ecco la prima parola: desiderio.
Un desiderio che come riporta l’etimo (dal latino de sideris=stelle) sottende mancanza… di stelle.
In quanto mancanza (o deficienza?), il de sideris stimola un vigore generativo nel cercare soluzioni.
Dopo aver gridato dai balconi che andrà tutto bene, è ora di cambiare, per davvero, il mondo.
Adam Ardvisson, in: “Changemaker? Il futuro industrioso dell’economia digitale”, propone un’attraente riflessione sull’evoluzione del capitalismo, che ci può essere utile nell’interpretare il presente.
L’autore paragona questi nostri tempi con quanto accaduto con la crisi del feudalesimo.
Fase che ha aperto, poi, le porte al capitalismo industriale.
A partire dall’anno 1000, i cadetti della nobiltà e i servi scappavano dall’oppressione del feudo verso luoghi inesplorati sia fisicamente che territorialmente, in grado di offrire libertà e opportunità, dando inizio, così, all’urbanizzazione.
Inizia a crearsi un ceto sociale in grado di immaginare una vita diversa, più libera e uguale.
Questo, potrebbe essere identificato come il nucleo, che ha alimentato la società di mercato e costruito le basi per la modernità.
Secondo l’analisi di Arvisson il capitalismo nasce dalle ceneri del feudalesimo, eliminato sotto una crisi economica ed ecologica segnata della peste, pandemia che annientò quasi metà della popolazione europea in circa dieci anni.
Quindi, gli elementi che segnano la fine del feudalesimo sono tre:
1) una profonda e lunga crisi economica;
2) un capitalismo non più in grado di rispettare le proprie promesse;
3) una crisi ecologica di grosse dimensioni.
Urca! Siamo sicuri di essere nell’anno 1000?
Anno XX del III millennio D.C., siamo in piena contingenza pandemica, le diseguaglianze si sono accentuate, la forbice tra garantiti e non garantiti è sempre più insostenibile.
Vaste fasce di classi lavoratrici e portatrici di creatività e innovazione, si ritrovano impantanate in un’accozzaglia di bullshit jobs (lavori di merda) ed ingannevoli opportunità propinate dal capitalismo delle piattaforme.
È l’economia dei lavoretti, bellezza! Però, dire gig economy fa più cool.
Affitto temporaneo di camere, freelance che creano app, siti web, contenuti pagati un tanto al chilo, trasporti privati alternativi ai taxi, consegne a domicilio.
In questo pazzo pazzo mondo pieno di incoerenze emerge la necessità d’inventare nuove prassi e opportunità di lavoro, indipendenti, creative e rivolte al cambiamento.
È autorealizzazione come desiderio globale, da parte di forze imprenditoriali che fuggono da un capitalismo in declino, per dedicarsi ad attività d’impresa che si combinano con visioni di una società diversa e capace di piantare i semi di una nuova idea del pianeta.
La visione proposta da Ardvisson è quella di un post-capitalismo basato sullo sviluppo dell’economia industriosa, in grado di sostituire l’economia industriale.
L’economia industriosa è divisa in due parti:
1) c’è l’economia dei lavoratori della conoscenza (knowledge worker), che rifugge dal confrontarsi con la complessità del mondo, però ricca di idee e immaginazione;
2) c’è poi l’economia popolare, meno ideologica, pragmatica ed efficiente, che va incontro ai bisogni delle persone.
Dall’incontro della capacità visionaria dei knowledge worker e il pragmatismo dell’economia popolare, potrebbe venir fuori un’organizzazione sociale in grado di combinare l’efficienza e la creatività, strumenti utili per affrontare i concreti problemi sociali, economici e politici quotidiani.
E il capitalismo, citato all’inizio del pezzo che fine ha fatto?
Tornando all’analogia storica, vediamo che nella transizione tra feudalesimo e capitalismo gran parte della vecchia borghesia, nasce dai vecchi signorotti feudali, che a un certo punto si sono dedicati al commercio.
Mentre, in questo terzo millennio l’evoluzione ci domanderà una risocializzazione dell’essenza stessa del capitalismo, con un maggiore investimento sui desideri e sull’autorealizzazione delle persone.
Seguendo il testo di Adam, allora:”Saranno i pirati, gli hacker, i changemaker ad offrirci la possibilità del cambiamento edificando nuove economie sulle rovine del capitalismo?”.
Ci servono i sognatori visionari, per suggerirci come riaccendere il desiderio di sperimentare nuove vie di fuga per superare il fallimento del presente.
Eppure non è più tempo di rivoluzioni, il futuro è scaduto.
Gran parte dei lavoratori della conoscenza, con formazione universitaria, investono il loro sapere dedicandosi progetti di (peer production) produzione sociale o produzione orizzontale[2] sperando di poter contribuire a una qualche trasformazione generale.
Il ritorno alla modernità industriosa, può avvenire solo e soltanto attraverso la cultura. È il risultato della distruzione della produzione romanzesca che ha contrassegnato la modernità industriale: il comunismo, la democrazia liberale o la società di consumo.
Changemaker di tutto il mondo, unitevi!
È giunta l’ora di convincersi che quanto si sta facendo è utile e che la propria esistenza ha senso.
Napoli, 13 luglio 2020
[1] Stando alla definizione della Norrsken Foundation un changemaker è un imprenditore – o chiunque si faccia imprenditore di sé stesso – che provoca un cambiamento nella propria azienda o nella propria realtà generando un forte impatto sociale. Il termine è stato coniato negli anni Ottanta da Bill Drayton, fondatore di Ashoka. Secondo la sua visione, il vero imprenditore sociale deve andare alla radice del problema e applicare una soluzione così innovativa da diventare una pratica diffusa, così da generare un cambiamento sistemico, cioè un cambiamento culturale. Due changemaker italiani sono: Alberto Alemanno, che con The Good Lobby supporta i cittadini nel monitorare l’attività dei propri Governi. Massimo Vallati di Calcio Sociale, che usa lo sport come strumento profondo di educazione nelle realtà geografiche più difficili e che, durante la Quarantena, ha digitalizzato la sua attività.
[2] peer production. Modello economico di produzione di beni o servizi basato sulla collaborazione spontanea tra soggetti dello stesso livello (peer) che ha luogo in assenza di una struttura organizzativa di tipo rigidamente gerarchico, come per es. quella costituita da un’impresa: il modello della p. p. viene per questo normalmente contrapposto alla market-based production, in cui la produzione di beni o servizi avviene mediante il ricorso ai tradizionali meccanismi di mercato. La teorizzazione del modello si deve in gran parte al giurista statunitense Yochai Benkler, il quale, partendo dall’osservazione di fenomeni come Wikipedia o, in ambito software, il sistema operativo Linux, ha evidenziato come anche in assenza di incentivi economici diretti i processi produttivi basati sulla p. p. possano prosperare, a condizione che: i prodotti o servizi siano dotati di un alto tasso di modularità; le componenti in cui può essere frazionato il prodotto o servizio abbiano un alto coefficiente di granularità; il costo per organizzare, integrare e verificare la qualità delle diverse componenti sia relativamente modesto, circostanza quest’ultima agevolata da un ampio ricorso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione da parte dei soggetti coinvolti nel processo di produzione collaborativa.