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“Care, fresche e dolci acque”

di Carlo Gimmelli

Finalmente abbiamo un primato mondiale: siamo i maggiori consumatori pro capite di acqua minerale imbottigliata, circa 221 litri a testa all’anno (2019): è questo un altro grottesco record nel paese con la più alta biodiversità europea e prima in Europa per numero di fonti e diversità oligominerale delle sorgenti.

Come sfruttare dunque questo impagabile patrimonio naturale reso ancora più prezioso dall’inarrestabile desertificazione dell’ecosistema causato dalle forsennate emissioni di gas serra?

Con un sistema idrico nazionale all’avanguardia capace di una distribuzione capillare e senza sprechi, degni eredi degli architetti dell’Urbe che esportarono il loro genio nell’ingegneria civile in tutto il mondo?

Illusi!

Privatizzando, naturalmente! Possibilmente “regalando” l’uso e l’abuso delle fonti ai soliti “generosi” Amici, in cambio di un piatto di fave!!

Ad oggi in Italia sono commercializzati circa 300 marchi di acque minerali confezionate in 140 stabilimenti, Umbria e Toscana in testa, che hanno di fatto privatizzato le sorgenti date in concessione, rendendole inaccessibili.

Le concessioni sono saldamente nelle mani di poche famiglie, strategicamente lontane dai riflettori, e di multinazionali, Lete, Norda, Ferrarelle, Co.Ge.Di. (l’acqua che fa fare “plin plin”), Spumador, Società Italiana Acque Minerali, Gruppo Coca Cola Company, spesso estere, che hanno rilevato le etichette più famose e che imbottigliano ogni anno circa 16 miliardi di litri, il 90% in plastica non riciclabile, necessari all’enorme sete nazionale.

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Ovviamente la distribuzione del prezioso liquido non viene assorbita solo a livello locale ma percorre le autostrade del Belpaese su migliaia di “ecologici” TIR (l’80% dei trasporti di genere alimentare in Italia avviene su gomma) che poi stoccano le pedane nei piazzali assolati dei centri di smistamento da cui su altri furgoni viene distribuita ai grossisti e supermercati per poi finire, benefica, sulle vostre tavole.

Il miliardario affare delle acque minerali rappresenta un paradossale italico unicum: il prezzo della bottiglia sullo scaffale del supermercato è di circa 250 volte (duecentocinquantavolte!) il costo che i concessionari pagano alle regioni, circa 1 millesimo di euro al litro, per lo sfruttamento illimitato delle fonti: ovvero i costi di produzione sono quasi interamente dovuti a packaging, trasporto e pubblicità.

Il costo dell’acqua del rubinetto è di circa 1000 volte inferiore, per una famiglia media, rispetto a quello dell’acqua imbottigliata, ma ahimè gli acquedotti non sono quotati in borsa e a chi conviene fare campagne pubblicitarie per incentivare l’uso dell’acqua pubblica quando le multinazionali delle minerali
distribuiscono milioni di euro a pioggia in pubblicità?

Chi ha interesse a favorire l’uso pubblico del prezioso liquido sottolineando che l’acqua del rubinetto riceve per legge controlli giornalieri mentre per quella imbottigliata è previsto un controllo annuo alla fonte, ignorando il proliferare batterico durante lo stoccaggio?

Fare affari con le “Care, fresche e dolci acque”  regioni italiche è un vero piacere per i Signori delle acque che versano circa UN EURO ogni 191 incassati con il record della campana LETE, un euro elemosinato alla virtuosa Regione Campania ogni 312 incassati (dati 2015, fonte MEF), azienda leader nel campo di pubblicità e sponsorizzazioni sportive per decine di milioni di euro, dalla Nazionale di calcio ai top club di serie A, alla Ferrari, tennis, ciclismo.

Le benevole leggi, inoltre, favoriscono i concessionari anche sui limiti delle sostanze contaminanti, diversi tra l’acqua pubblica e quella in bottiglia, tipo l’arsenico, il cadmio, il piombo, che se presenti in concentrazioni non rilevanti alla fonte, comunque superiori a quelle tollerate in acquedotto, possono
non essere citate in etichetta.

Le auree concessioni hanno durata trentennale grazie ad una legge del 2006, ma il 50% di queste sono state stipulate tra il 1900 e il 2000 e godono di accordi redatti con la penna e il calamaio e mai aggiornati, in sette casi è previsto lo sfruttamento perpetuo, senza data di scadenza.

Ma come si ottengono le concessioni? Anche in questo caso occorre essere dotati di metodi convincenti e tanta simpatia, visto che, come evidenzia il Tesoro nel suo ultimo report del 2015, le assegnazioni sono dirette, su semplice istanza di aziende private, quasi sempre già concessionarie. Superfluo dire che, anche in questo campo l’Europa ci è col fiato sul collo da anni, pretendendo gare pubbliche aperte alla concorrenza e a prezzi di mercato considerato che in Italia su 295 concessioni di sfruttamento delle sorgenti solo una (!) è stata assegnata con bando pubblico, in Liguria.

In soldoni il giro di affari che gravita intorno alle acque che fanno fare “tanta plin plin” è di circa dieci miliardi di euro annui, tre miliardi solo per imbottigliamento, e i Signori delle Acque per il disturbo dello sfruttamento di fatto illimitato delle fonti, e il conseguente inquinamento ripagano lo Stato con lo 0,6 % del fatturato.

Soluzioni? Sono sotto gli occhi di tutti… ma proprio per questo irrealizzabili, alla fine a chi conviene scontentare Poseidone?

Napoli, 8 luglio 2021