Amaro 18
Amaro 18
di Enrico Tomaselli
Dice Renzi che il fiscal compact e l’obbligo del 3% sono cose pensate 20 anni fa, e che da allora il mondo è profondamente cambiato. Però dice anche che l’Italia è in deficit di credibilità, e quindi deve rispettarli. Cioè quelle sono cavolate, e per dimostrare che siamo un paese serio le faremo senza storie.
Potrebbe apparire una stravaganza, ma in effetti – dal punto di vista del premier – non lo è poi tanto. Come dice Gilioli, “Renzi è uno straordinario ed efficace improvvisatore”. Dunque per lui il problema non è la coerenza tra premessa e conclusione, ma dare un colpo al cerchio ed uno alla botte. Da un lato denuncia le regole dell’austerity in salsa europea, per ammiccare all’opinione pubblica che non le digerisce affatto, e dall’altro ne esegue i dettami per non perdere il fondamentale supporto di Merkel & co.
Così si spiega anche tutta la vexata questio dell’art. 18, con la sua accelerazione sia sul piano mediatico che legislativo, ed al tempo stesso la estrema vaghezza con cui sui muove il presidente del consiglio. Perché se il suo governo fa “in prevalenza cose di destra. Non (è) perché lui lo sia, ‘di destra’: lui è solo ‘di Renzi’. Ma perché nel frattempo la politica ha perso potere” (dice ancora Gilioli).
Nella sua ansia decisionista, ma del tutto priva di una qualche visione che non sia se stesso a Palazzo Chigi, il premier non ha infatti altra chance che quella di adeguarsi ai voleri dei paesi forti dell’Unione Europea. Dando però al contempo l’impressione di avere una propria politica autonoma.
É così che nasce (e cresce) quello sgorbio del Jobs Act. Dopo aver giocato al dico-non-dico per un mese o giù di lì, il governo va alla forzatura proprio alla vigilia del summit europeo di Milano, dove Renzi sente il bisogno di giocarsi una qualche carta. Per ottenere ciò – senza dimenticare l’opportunità di umiliare la dissidenza interna… – il capo del governo mette in campo un mostro informe; dimenticando la ripartizione costituzionale dei poteri (non lui per primo, va comunque detto…), in base alla quale il potere legislativo spetta al Parlamento, mentre al governo spetta quello esecutivo (cioè, esegue quel che decidono le Camere), il governo si fa promotore di una legge in una materia delicatissima come il lavoro, con l’intenzione dichiarata di intervenire anche su temi controversi come l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Non pago, presenta al Senato un testo che contiene poche e vaghe indicazioni generali, riservandosi di definirne successivamente i contenuti con una legge delega, e poi su questa chiede persino il voto di fiducia. Insomma, col ricatto della crisi di governo, pretende di avere carta bianca.
Ma l’art. 18 è un feticcio, un totem, che ha una duplice funzione nell’ambito dello scontro politico in atto. Tutti (ma proprio tutti…) sanno che, tanto più dopo la riforma Fornero, l’art. 18 è stato già ampiamente depotenziato, e per di più riguarda solo una parte dei lavoratori dipendenti. Così come tutti sanno che non c’è alcun nesso tra questo ed i livelli di occupazione. Da un canto, quindi, serve a segnare un ulteriore vittoria, di grande valore simbolico, per le destre europee ed italiane, che a vario titolo sostengono il governo. E dall’altro, serve ottimamente ad incastrare le sinistre in una battaglia che si può presentare come conservatrice.
E come fu già per la scala mobile, anche questa rischia di essere una battaglia persa in partenza, per queste ultime.
Perché si è scelto un (pur giusto) approccio difensivo. Quando si sarebbe dovuto anticipare l’avversario, e scegliere un approccio propositivo, porsi all’offensiva.
Prima che partisse l’attacco all’art. 18, si sarebbe dovuta aprire una grande vertenza politica per estenderlo a tutti i lavoratori, indipendentemente dal tipo di contratto e dalla dimensione aziendale. E si sarebbe dovuto fare sin dal governo Monti. Purtroppo, le sinistre politiche e sindacali erano in gran parte succube dei diktat europei, ed hanno tiepidamente ingaggiato la solita battaglia di retroguardia, ispirata alla logica della riduzione del danno – il cui risultato è, sempre, un danno dopo l’altro.
Ma il tema vero, oggi, non l’art. 18. Anche se è giusto battersi per mantenere questa garanzia, ed ancor più giusto sarebbe battersi per estenderla universalmente, la vera questione sul tappeto è il reddito, non il lavoro.
Non c’è solo la crisi economica, ad incidere così brutalmente sui livelli di occupazione. C’è la globalizzazione, che rende disponibili bacini di forza lavoro immensi ed a basso costo. C’è la finanziarizzazione, che distrae i grandi capitali dagli investimenti produttivi, indirizzandoli verso la speculazione. C’è la rivoluzione tecnologica (hardware e software) che in misura crescente sostituisce l’uomo con le macchine, in ambiti produttivi sempre crescenti, anche cognitivi. Tutti processi non meramente contingenti, e che – governati dalle destre liberiste – hanno prodotto non solo una caduta tendenziale dell’occupazione, ma anche un allargamento della forbice sociale ed una concentrazione della ricchezza in poche mani.
Dunque, una battaglia per il lavoro, senza ridiscuterne profondamente la natura, significa collocarsi ancora una volta in retroguardia – con quel che segue…
Servono invece politiche capaci di produrre redistribuzione del reddito, perché – tra l’altro – senza una ripresa del mercato interno l’economia si avvita su sé stessa. Ma la soluzione non può essere il reddito di cittadinanza, che per sua natura può rispondere ad un problema limitato (per quantità o nel tempo), ma non reggerebbe in una prospettiva di lunghissimo periodo. Insomma, non si possono affrontare le questioni del lavoro e del reddito senza avere a mente le trasformazioni profonde che sono intervenute – e che ancora non hanno finito di manifestarsi. Perché la flessibilità e la precarietà erette a sistema, persino in una prospettiva liberista, sono soluzioni di corto respiro. Torna quindi di estrema attualità un’altra prospettiva; affacciatasi tempi addietro, anticipando i problemi del presente.
C’è un solo modo per tenere insieme redistribuzione del reddito e ripresa dell’occupazione. Ridurre l’orario di lavoro.
Restituire tempo alla vita, sottraendolo alla produzione. Impiegare tre dove oggi sono due. Insomma, lavorare meno per lavorare tutti. É, questa, l’unica prospettiva per il futuro.
Napoli, 9 ottobre 2014