dome 22 DICEMBRE 2024 ore 19.33
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ED E’ QUESTA L’ORA DEL PIANTO..
di Luigi Antonio Gambuti

L’umanità ha bisogno di piangere.
Ed è questa l’ora del pianto.
Così Papa Francesco al termine della sua omelia infra missam a Redipuglia qualche tempo fa.
M’è rimasta – e mi ha sconvolto – dentro, questa accorata affermazione papale e mi ha indotto a riflettere sul perché di quel bisogno e sul perché proprio oggi della necessità di soddisfarlo.
Le ragioni sono molteplici. Geopolitiche, economiche, etiche e terra terra, quelle da rinvenire nei piu’ elementari comportamenti umani declinati nella ordinarietà del quotidiano.
Le ragioni geopolitiche si radicano nelle antiche contrapposizioni tra blocchi orientali ed occidentali, tra i ricchi e i poveri del mondo; tra fanatismo religioso e odi razziali, finanche odi tribali, ragioni che sono esplose a seguito della presa di coscienza delle libertà negate da una parte e da rivendicazioni antiche sedimentate nella storia, dall’altra.
Il mondo intero è interessato da una guerra non dichiarata, combattuta a scacchiera che rischia, una volta saturate le zone di confine degli scenari interessati, di diventare la terza guerra mondiale.
L’ha detto il Papa, richiamando dalla sede petrina, l’umanità a contrastare la malvagità del mondo e la follia di coloro che ne muovono e ne gestiscono i sistemi.
Che mai c’è da aggiungere alle scene di persone sgozzate, alle visioni di macerie fumanti, al trionfo della morte là dove una volta c’erano case, altrove opifici e focolari, dove l’uomo costruiva e viveva il suo destino?
Niente, se non lo sfogo del pianto per l’umanità perduta, spargendo lagrime sul muricciolo del nostro quotidiano a pregare Iddio – il Papa ce lo chiede giorno dopo giorno -perché la follia ceda il posto alla ragione e che l’amore travolga l’odio con la sua forza redentrice.
E che lo sguardo si levi alto, al di sopra degli orizzonti devastati, per valutare quanto grande sia la stupidità dell’uomo. Conosciamo tutti gli scenari delle guerre, là dove si combatte per uccidere, là dove ci si affanna per salvare.
Dalle bocche del cannone nasce la morte della vita , e dalle macerie della cannonate ci si affanna a salvare la vita dalla morte.
Semplicemente, perché non chiudere le bocche dei cannoni ed impegnarsi tutti, e d’ogni parte, a coltivare il seme della vita in questo paradiso in terra che il Signore ci ha donato?
L’altro muretto su cui versare lacrime “nostrane” riguarda le vicende che si affollano nelle nostre case. Nessuno può negare le difficoltà che ormai ci aggrediscono giorno dopo giorno.
Oggi più che mai siamo in balia del mare tempestoso della cui metafora ci servimmo nel servizio precedente.
Così come fece l’Economist qualche giorno dopo. Non siamo mai usciti dalle difficoltà che quel mare ha procurato.
La tempesta si è aggravata e il legno su cui ci eravamo fiduciosamente affidati pare non riuscire più a tenere diritta la barra verso sponde sicure ed annunciate.
La pace sociale, le condizioni minime per un’esistenza “normale” sono sempre più lontane.
La povertà è in aumento esponenziale, aggredendo le fasce sociali che mai l’avevano conosciuta; la “crosta”nera della disoccupazione oscura senza scampo qualche lume di speranza appena si palesa.
Il lavoro manca, le aziende chiudono per mancanza di commesse e i negozi per “ristrutturazione e inventario”; la collera dei senzafuturo monta ogni giorno che passa e coloro che governano (dovrebbero!) la barra del timone che ti fanno?
Parlano e parlano dondolando goffamente soddisfatti negli ambulacri del potere -vedi il Renzi che balla camminando e ammicca a destra e a manca -; litigano e s’accordano, recitando copioni ormai datati,discettando sui massimi sistemi, quando occorre porre mano, e seriamente, agli strumenti per fare fronte alle piccole miserie quotidiane che tormentano la vita della gente. Più fatti, meno parole.
Si dirà. Non serve un drone per osservare dall’alto ciò che succede sulle strade del mondo sottostante.
Scendano dai troni e vengano a toccare, lorsignori, ciò che tormenta l’esistenza disperata dei loro amministrati.
Niente più parole, niente più proclami. Anche se si è belli, furbi e intelligenti, a chi ha fame- e ce ne è molta di fame dalle nostre parti, quella di pane e companatico, prima di quella etico-valoriale e culturale- non interessa più di tanto la riforma elettorale (sempre gli stessi!); la riforma della giustizia (attenti all’Unto del Signore!); l’abolizione delle Province e le Aree Metropolitane (dalla padella alla brace, sempre gli stessi sono!).
A chi non lavora e non porta pane e latte ai suoi bambini non importa la fiducia sulla riforma del lavoro (l’art. 18 come vittoria dei padroni!); non importa anticiparsi quote della buonuscita per condannarsi alla miseria di domani.
A chi non vede luce in fondo al buio dà fastidio l’incitamento a “crescere” e a farsi avanti per cambiare verso, quando gli mancano le forze per stendere le mani; mortifica assistere ai teatrini sempre attivi, alle esternazioni di gufi e rosiconi, alle nostalgie dei “papi” ed olgettine (ha detto l’Unto che farà il professore di libertà! povera scuola!) e a tutto ciò che di marcio ancora ammorba l’aria che respira.
Niente può più interessare a chi non ritorna l’eco di una parola sempre attesa e mai arrivata,come punto di riferimento di una veglia mai assopita.
Ai crocifissi della storia bisogna dare la forza di sperare, prima che il muro del pianto crolli sotto il peso delle tragedie ingiustamente sopportate.

Napoli, 8 ottobre 2014