L’arte ci libera dalle prigioni
L’arte ci libera dalle prigioni
di Martino Ariano
È una bella prigione, il mondo
William Shakespeare
Questa tela, intitolata La Ronda dei Carcerati, è di Vincent van Gogh, datata 1890, anno della sua morte.
L’artista descrive una realtà che non è ricorrente nell’arte: il carcere, la prigione.
Una condizione che lui stesso visse, non in quanto fisica-giudiziaria, ma in quanto psicologica ed emotiva; infatti, quando dipinse quest’opera, van Gogh si ritrovava ricoverato e rinchiuso nel manicomio di Saint-Rémy, in Francia.
Quest’opera è la copia fedele dell’incisione di Gustave Dorè, del 1872, Newgate: The Exercise Yard.
Infatti, Van Gogh, non potendo uscire dal manicomio si faceva inviare dal fratello Theo alcune stampe, dalle quali trarre ispirazione per nuovi lavori.
Van Gogh la riproduce con il suo tipico espressionismo nudo e crudo, reso tale dai colori, ma soprattutto dalla sua caratteristica pennellata nervosa.
La scena, a volo d’uccello (ripresa dall’alto), è ambientata all’interno di un cortile, in cui un gruppo di detenuti cammina in cerchio, in senso orario, sotto stretta osservazione di alcune guardie, rappresentate alla destra del quadro.
Lo spazio esagonale è claustrofobico ed opprimente.
Le mura sono alte e sembrano continuare oltre il dipinto.
Gli uomini, rappresentati con umili vesti, procedono a testa bassa, malinconici, tristi e rassegnati al loro destino.
Una rassegnazione ostentata soprattutto da uno dei detenuti, che volge lo sguardo verso l’osservatore.
Un detenuto che, ad una più attenta osservazione, ci restituisce un autoritratto dell’artista stesso.
L’artista si fa così narratore della sua tragedia, fatta di solitudine, disagio e incomprensione.
Si rappresenta senza il copricapo, scelta forse intenzionale per essere più facilmente notato tra gli altri detenuti, con le mani abbandonate lungo il corpo e con uno sguardo che invoca aiuto e comprensione in chi lo guarda.
L’uomo-artista risulta essere centro focale e psicologico dell’intera opera.
Ma in tutta la tristezza e l’angoscia, aleggia un filo – in questo caso un volo – di speranza: due farfalle bianche volano verso l’alto e si scagliano come piccoli puntini bianchi sulle pareti. È un prototipo figurativo quello di inserire in un’opera d’arte, come simbolo di libertà e di speranza, il volo di farfalle o uccelli.
Un barlume di speranza è dato anche dalle uniche e piccole finestre rappresentate sul lato destro e frontale e dalla luce zenitale, che proviene dall’alto, dall’apertura del patio.
Per ovvie ragioni, il dipinto non è la raffigurazione di una scena reale, ma è una sorta di reportage sociale e psicologico sulla condizione dei reclusi, oltre che della condizione personale dell’artista.
La reclusione, la prigione o il carcere che sia, pur avendo alla base delle motivazioni giuridiche, sociali e/o psichiche, restano delle condizioni alienanti, distruttive e addirittura disumane, se non trattate e gestite in maniera corretta.
Esse, obbligate o non, restano condizioni e situazioni molto difficili da gestire sia per chi le vive e sia per chi è chiamato a dirigerle, perché capaci di mettere in moto pulsioni, atteggiamenti e soprattutto pensieri, che possono danneggiare, anche gravemente, non solo il fisico ma soprattutto la psiche di una persona.
Nel quadro analizzato, Van Gogh, mostrandosi come simbolo di tale condizione, lancia, mediante lo sguardo di un detenuto, un insegnamento: lui, che sta vivendo in pieno lo stato emotivo e fisico della reclusione, tra malinconia e disperazione, riesce ancora a sperare e a realizzare un’opera d’arte, un’ennesima dimostrazione che la vera arma per sentirsi meglio è la libertà, di qualsiasi natura essa sia, in qualsiasi modo la si cerchi e la si ottenga, ma soprattutto in qualsiasi situazione ci si trovi.
Una situazione non molto lontana da quella che abbiamo vissuto e in parte stiamo vivendo in quest’ultimo anno, a causa del Covid-19, che ci ha costretti prima ad un isolamento forzato, alla reclusione, ora a svariate limitazioni.
Si usano gli specchi per guardarsi il viso,
e si usa l’arte per guardarsi l’anima.
George Bernard Shaw
A prescindere dal dato storico contemporaneo, che pesa non poco, ciò che però dovrebbe far riflettere, ma soprattutto far agire, è la prigione di natura emotiva, sentimentale o psicologica.
È questa, più di quella fisica, la condizione più difficile da sopportare, comprendere, arginare e risolvere.
Si è costantemente chiamati a delle scelte, a delle evasioni, da quelle più semplici a quelle più complesse.
Dall’uscire e vincere l’evasione dalla “zona comfort” a quella dinanzi un serio problema, che può essere una dipendenza o una condizione sociale.
Per evadere ci vuole coraggio, coraggio di guardare in faccia la realtà, il problema.
Come fa Van Gogh, che guarda dritto negli occhi l’osservatore, che per lui costituisce il problema.
Senza vergogna, senza nascondere i propri limiti, le proprie paure, le proprie insicurezze, le proprie fragilità.
Non voglio entrare in tecnicismi legati alla sfera della psicologia, poiché non sono esperto in tale settore.
Il mio intento è solo quello di estrapolare dal mondo dell’arte un esempio di uomo che ha vissuto in prima persona tutte le tipologie di prigione, da quella fisica a quella mentale: Vincent Van Gogh.
Uno degli artisti più conosciuti e famosi.
La sua conoscenza resta ai più sommaria e offuscata da molti pregiudizi.
Per questo vi consiglio la visione del film “Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità”, che s’incentra sugli ultimi anni della vita dell’artista.
Anni importantissimi per la sua arte ma in particolar modo per la sua vita.
L’opera, sopra analizzata, è uno dei suoi ultimi lavori.
Sono sicuro che qualcuno di voi si rivedrà in Van Gogh.
Ho scelto Van Gogh e quest’opera, poco conosciuta, proprio per sottolineare l’importanza che può avere l’arte nella vita dell’uomo.
L’arte è un ottimo, ma soprattutto sano, strumento, mezzo per evadere dalle proprie prigioni, per superare dei propri limiti, per vincere le proprie paure.
Marzano di Nola, 30 maggio 2022