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Il Signore delle mosche
di Maria Teresa Luongo.

Piggy l’aveva detto subito che era necessario contare i più piccoli e segnare i nomi. Certo mancavano carta e penna ma se avessero collaborato tutti in qualche modo si sarebbe fatto. Ma niente, nessuno lo prendeva in considerazione, tutti troppo presi dall’eccitazione per questa nuova avventura che ancora non disvelava il suo lato oscuro. Tutti si comportavano come un mucchio di bambini. Certo il fuoco serviva, altrimenti come avrebbero potuto salvarli da quell’isola sperduta in mezzo all’Oceano? Ma quel rogo! Avevano bruciato tutto. Si erano comportati proprio come un mucchio di bambini immaturi, nessuno pensava alle conseguenze.
Ora l’isola bruciava e sotto i corpi degli alberi morti Piggy arrabbiato li rimproverava. “Sto falò non serve a niente”. E poi dei più piccoli chi se ne era occupato? Quanti ne erano? Nessuno li aveva contati! Gli avevano affibbiato il compito gravoso ma come avrebbe potuto da solo? E adesso, impauriti e increduli, sotto il rombo feroce del fuoco, si rendevano conto che all’appello mancava un piccolo con una voglia sulla faccia. Senza nome, perché nessuno gliel’aveva chiesto.
Anche l’idea dell’adunata era stata un’idea di Piggy. Era stato sempre lui a suggerire a Ralph di prendere quella bella conchiglia brillante e di provare a suonarla, lui non poteva perché soffriva di asma. Sì, bisogna provare a suonare la conchiglia per vedere quanti bambini ci sono, quanti sono sopravvissuti all’incidente aereo, e poi fare un congresso per organizzarsi. Si dovrà eleggere un capo, suddividere i compiti, costruire dei rifugi, fare il fuoco perché serve il fumo per il segnale e poi bisognerà custodirlo per evitare che si spenga, il fuoco non deve spegnersi per nessun motivo al mondo, è l’unica àncora di salvezza. Ci si deve organizzare, non ci sono ‘grandi’, dovranno essere loro responsabili, non si dovranno comportare come un mucchio di bambini.
Ma Piggy conta meno di zero su quell’isola. Nessuno lo ascolta. Nessuno gli ha chiesto nemmeno il nome. L’identità celata dietro quegli occhiali spessi si era persa in quel nomignolo offensivo .Piggy, maialino.
Lui aveva capito che le cose non si sarebbero messe bene, l’aveva capito non appena aveva visto Jack e il furore che c’era nei suoi occhi, quella voglia di cacciare e uccidere. L’aveva capito dopo il primo banchetto con il primo cinghiale ammazzato. Quell’esaltazione frenetica non era semplice felicità per un pasto di carne dopo giorni di pranzi a base di sola frutta. Era qualcos’altro, e tutti pian piano venivano investiti da quest’ondata di… quest’ondata non era definibile. Era una malvagità primordiale che emergeva piano piano.

Durante gli anni di insegnamento presso la scuola elementare di Salisbury, William Golding (St. Columb Minor, Cornovaglia, 19 settembre 1911 – Perranarworthal, 19 giugno 1993) fu osservatore di una serie di esperimenti “sociali”. Su iniziativa del direttore, le classi di quarta elementare venivano divise in due gruppi e, mentre uno di loro faceva da arbitro e un adulto da supervisore, si discuteva una questione. Un giorno Golding, forse presago di quel che sarebbe successo, pensò di forzare questa sperimentazione: decise di uscire dall’aula e di dare alla classe piena libertà. Cosa sarebbe accaduto? I bambini, innocenti per definizione, in che modo affrontano i problemi quando è assente l’occhio adulto?

Le pessimistiche previsioni del professor William trovarono un’amara conferma: dovette affrettarsi a rientrare in classe per impedire che la situazione degenerasse nel caos e nella rissa aperta. Questo episodio ispirò il suo capolavoro, il romanzo distopico “Il Signore delle mosche”, il cui titolo (scelto da T. S. Eliot) è una metafora che rimanda a Satana: un’autopsia crudele dell’animo umano e della sua innata malvagità, perché se il delitto già di per sé fa orrore ancor di più sconvolge se a macchiarsene è un bambino.

Golding ci restituisce l’immagine di un’umanità sporca e marcia fin dall’infanzia, un’opera che ferisce a fondo la sensibilità di chi non vuole smettere di credere in un mondo migliore. Ma “Il Signore delle mosche” non è soltanto questo. È anche una critica spietata ad una società che non sa scegliere bene i propri capi di governo.

Piggy è un bambino intelligente, razionale, è la voce adulta che potrebbe salvare tutti. E’ portavoce della democrazia e della necessità della legge. Lui sembra evocare il motto ciceroniano del “Legum omnes servi sumus ut liberi esse possumus” ossia siamo tutti sottoposti alle leggi per potere essere uomini liberi.
Invece viene deriso, emarginato, poi ucciso brutalmente. I bambini preferiscono farsi guidare da Ralph, in un primo momento, perché lui possiede la famosa conchiglia. Ralph è certamente tra i ‘buoni’ ma non viene scelto per questo, è la conchiglia ad essere scelta perché evoca l’immagine del potere e del rispetto. E poi, con un plebiscito di consensi, il potere passerà a Jack: bambino fulvo, aggressivo, amante della caccia. Jack è gratuitamente crudele ma viene accettato e la sua autorità mai messa in discussione perché dà cibo. Procaccia carne. Poco importa se quella che era nata come una democrazia degenera in una dittatura del terrore e del sangue.

Nel 1983 l’accademia di Svezia conferì a Golding il premio Nobel per la letteratura, “per i suoi romanzi che, con l’acume di un’arte narrativa realistica e la diversità e universalità del mito, illuminano la condizione umana nel mondo odierno”. È questa l’immortalità de Il Signore delle mosche, quella che fece di questo romanzo, all’indomani della sua prima pubblicazione, la lettura preferita dei giovani universitari americani. Questa sua capacità di essere intrinsecamente un classico, fin dalla prima stesura, per aver saputo scolpire sul marmo della coscienza collettiva gli errori di cui non sappiamo fare tesoro. Questa è la nostra condizione, quella su cui Golding “ci illumina”: una società perversa che continua a scartare gli uomini di buon senso per dare il potere a chi non ne ha.

Napoli, 24 luglio 2018